Autore: Massimo Veltri, già presidente di A.I.I.

A partire dal 1970, dopo i lavori della Commissione De Marchi nacque in Italia la consapevolezza di un approccio sistematico al problema della difesa del suolo. Perchè ci vollero 19 anni per giungere a una (buona) legge, la 183?

Non si può dire, in verità, che prima non si era avvertita tale esigenza: basterà citare quanto ricostruisce Giuseppe Barone nel suo libro “Mezzogiorno e Modernizzazione”, Einaudi 1986, con il poderoso intervento orchestrato da Bastogi, Banca Commerciale e uno stuolo di tecnocrati e di tecnici, per realizzare gli impianti silani in Calabria, a fini prevalentemente idroelettrici sì ma inseriti in una logica esplicita di conservazione del suolo, politica di montagna-pianura, bonifica idraulica. Solo che l’idea stessa di intervenire con strumenti di piano, per di più intersettoriali, ha stentato ad affermarsi, nel nostro paese. E prima, appunto, non era ancora matura, forse nemmeno concepita. Poi il susseguirsi con frequenza e intensità crescenti di eventi di portata particolarmente disastrosa, l’occupazione massiccia di suolo e sottosuolo nel boom del dopoguerra, una maturità e una presa di coscienza adeguate, l’invalersi della cultura della pianificazione, un vento nuovo che soffiava in Italia e che parlava di programmazione, di proiezione verso il futuro, ma aggiungerei pure la statura e l’impegno di esponenti della comunità scientifica nelle discipline idrauliche e di scienza della terra crearono le condizioni perché difesa del suolo non rimanesse un concetto confinato a pochi addetti. Certo, ci vollero molti anni: da che le conclusioni di Giulio De Marchi si trasferissero in un dettato normativo molta acqua passò sotto i ponti. E nel frattempo, in un contesto non parlamentare, nacquero il Progetto Finalizzato Conservazione Suolo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Gruppo Nazionale delle Catastrofi Idrogeologiche, sempre in ambito CNR, nelle università corsi di laurea e materie di insegnamento propri della difesa del suolo, ricerche finalizzate alla gestione e alla previsione di eventi estremi. Molti e diversi governi nazionali, ebbe il nostro paese, durante la gestazione della legge, così che il risultato finale non può non risentire di orientamenti, equilibri politici, patteggiamenti fra diversi poteri che insistevano sulla struttura del dettato normativo. Le Regioni, il decentramento di una serie di funzioni, la sottrazione di competenze a una istituzione e il conseguente passaggio ad altre – con le immancabili contrarietà, i consueti attriti, le conseguenti paralisi – rappresentano a mio parere le tortuosità, le viscosità con le quali ebbe a misurarsi il legislatore. Senza tacere il fatto che la superfetazione che ne conseguì, dettata da mediazioni, compromessi e bracci di ferro, sfociò nell’impugnativa davanti alla Consulta da parte delle Regioni rispetto a conflitti di competenza, e che di fatto frenò se non addirittura bloccò l’applicazione della legge. Legge, che è bene ricordare, è una legge quadro, rimanda cioè le diverse Regioni a legiferare con norme regionali, all’interno della cornice generale della norma nazionale.

Che giudizio ha dell’applicazione della 183?

Riconosco che non era facile misurarsi con la 183. Una vera e propria ‘rivoluzione’ in cui si superavano i confini amministrativi e l’attenzione era incentrata sui bacini idrografici, superando così barriere che da sempre avevano delimitato competenze, responsabilità e… bacini di consenso elettorale. Prevedere negli organismi di governo dei bacini le ‘Autorità di bacino’ con composizioni che contemplavano dicasteri diversi e poteri locali e non locali di vario tipo rimandava di fatto alla cultura della concertazione, alla multidisciplinarietà, e tutto questo in un quadro normativo estremamente complesso in merito a sovrapposizione di norme, di competenze, di procedure autorizzative, di iter da seguire: un groviglio con cui non era facile misurarsi. Né può tacersi per un verso che l’istituto Regione non era pronto a muoversi sul piano dell’adozione di norme che di fatto costituivano una limitazione d’uso del suolo e per altro verso il termine stesso ‘difesa’ che esplicitamente richiama a politiche, o soltanto azioni, negative e prescrittive quando in Italia stava prendendo piede la cultura della deregulation e della sempre più crescente occupazione indiscriminata di aree pur in presenza di una miriade di piani: regolatori, dei parchi, delle comunità montane, gli Ambiti Territoriali Ottimali a norma della legge così detta Galli… , e il massiccio spostamento verso valle, nelle aree urbane, della vita che prima, in un paese sostanzialmente agricolo contemplava presenze significative in collina e in montagna, laddove si originano i fenomeni di cui tratta la difesa del suolo: frane e alluvioni. Dicevo che non era facile, e infatti non fu facile: fato sta che fino alla metà degli anni novanta del secolo scorso la legge 183 rimase essenzialmente al palo.

Perché il Parlamento, attraverso i lavori di una commissione intercamerale, sentì la necessità di rivedere la 183?

Ma perché a qualcuno venne in mente di verificare il perché, dopo dieci anni e se pure con lo stop dato dalla Consulta di cui dicevo prima, in Italia le Regioni non avevano provveduto a legiferare nella cornice della legge nazionale né nessuno (in ambito parlamentare) si fosse curato di capirne i motivi e sollecitasse l’avvio d’una stagione susseguente alla legge. D’altronde non è questo, l’unico caso che si riscontra in cui fatta la legge si ritiene d’aver risolto il problema. Ma veniamo allo specifico: fu istituito, su mia proposta (ero all’epoca capogruppo Pds nella XIII Commissione Territorio e Ambiente del Senato della Repubblica), un Comitato Paritetico Camera dei Deputati-Senato della Repubblica con le finalità di verificare lo stato di attuazione della legge n. 183 del 1989, individuare criticità, proporre soluzioni. Conta, nell’attività parlamentare, il background, il retroterra culturale, il know how professionale, e se riesci a trasferire tutto questo in azioni istituzionali in contesti di rappresentanza parlamentare, beh… può uscirne qualcosa non solo in termini declamatori o demagogici, ma effettivamente utili oltre che autorevoli. Il Comitato è stato da me presieduto e in meno di un anno ha ultimato i suoi lavori fatti di audizioni, richiesta e raccolta di pareri, atti, proposte. Non c’è qui lo spazio per richiamare tutto, ovviamente, e suggerisco così di consultare a chi ne avesse voglia e interesse i due volumi editi dalla Tipografia del Senato della Repubblica che riportano tutti i lavori del Comitato, incluso il documento finale fatto di venti punti che sintetizzano in termini di operatività più o meno rapida il da farsi in ambito parlamentare e governativo per quanto riguarda la ‘manutenzione’ della 183, sia attraverso modifiche legislative che attraverso atti di indirizzo volti alla semplificazione e alla concertazione. Un documento finale ch’è stato presentato nell’Aula sia del Senato che della Camera nelle sedute di approvazione del decreto legge del Governo dopo i fatti di Sarno, ed è stato fatto proprio dal Governo. I punti essenziali: previsione e prevenzione esaltati e sottolineati; coniugare il sapere con il fare; promuovere la manutenzione del territorio; superare la ripartizione far bacini regionali, interregionali, nazionali; ridurre drasticamente i soggetti competenti nei bacini idrografici (ne contammo una cinquantina); abolire tutta una serie di vagli autorizzativi per le procedure esecutive dei progetti; assicurare fondi certi per la difesa del suolo; passare da una pianificazione effettivamente troppo rigida a strumenti di piano magari settoriali ma più snelli e più concretizzabili; prefigurare quanto si avvertiva era nell’aria con la normativa europea che già si percepiva si muovesse secondo certe linee. Ebbene: i due volumi di cui dicevo furono presentati a Palazzo Zuccari a Roma, con massiccio concorso e con convinta adesione del mondo, chiamiamolo così, della difesa del suolo. Le Regioni cominciarono a muoversi, a legiferare, il Governo, attraverso decreti ma mai con leggi ordinaria, modificò la 183 secondo le indicazioni del Comitato Paritetico, e devo dire che l’impianto complessivo che ne uscì fuori era un insieme coerente, snello, poteva funzionare. Senonchè intervenne Bruxelles, senonchè la grande attenzione e la grande tensione ch’erano state dedicate all’argomento scemarono e se pure possiamo e dobbiamo dire che molto è stato fatto siamo in un limbo di indifferenza e di sottovalutazione, oggi, che ci trovano se non disarmati certamente scoperti a fronte di un territorio fragile, esposto a eventi gravosi, di un tessuto normativo non adeguato, di un presidio tecnico e amministrativo insufficiente, di un difficoltà persistente nello spendere le risorse finanziarie disponibili, di inquadrare sempre e comunque interventi e azioni tanto a livello di scala di bacino quanto e prioritariamente in termini di previsione e di prevenzione.

Questa revisione si concretizza nella nuova Legge Quadro sull’ambiente, la 152?

Di fatto, dal 2000 viviamo in una vacatio. La direttiva europea ha abrogato l’esistente, ha introdotto il Distretto Idrografico, il nostro paese non ha recepito la direttiva, o meglio: l’ha recepita con legge dello stato ma subito dopo questa è stata impugnata davanti la Corte Costituzionale, dichiarata incostituzionale e ancora, ad oggi, non ‘corretta’ in forza della corrispondente sentenza della Consulta. Non abbiamo, cioè, né le Autorità di bacino ex legge 183 né le Autorità di distretto a norma della Direttiva UE. E’ vero, alcuni compiti e taluni adempimenti sono stati nel frattempo attribuiti ad alcuni organismi in essere in ossequio alla 183, così come numerosi tavoli tecnico-istituzionali sono stati messi in cantiere per assegnare al nostro paese una legge sulla difesa del suolo per così dire europea, ma per intanto non ci siamo ancora. Né mi risulta che a livello parlamentare, oltre che governativo, l’attenzione sulla difesa del suolo sia percepita come prioritaria, se non in termini meramente declamatori in corrispondenza di questo o di quello evento, ed esclusivamente con solenni impegni volti esclusivamente alla ricostruzione e non già all’intervento organico. In questa vacatio di cui dicevo si è, oggettivamente inserita la Protezione Civile. Con il suo encomiabile lavoro di soccorso alle popolazioni e di operazioni di pronto intervento, ma di fatto perdendo per strada gli altri due piloni della sua identità: previsione e prevenzione. Ma chiediamoci pure: può mai il Dipartimento della Protezione Civile surrogare compiti che attengono ad altre sfere? Può essere il Dipartimento della Protezione Civile l’unico braccio e l’unica mente delle politiche per la difesa del suolo? Né può qui sottacersi come l’impianto della legge 183 fosse da tutti ritenuto valido, se pure con le imperfezioni cui si è accennato, in specie se lo si considera dopo le novelle legislative che si sono succedute, eppure il nostro paese non è stato in grado di difendere tale impianto, a Bruxelles, laddove senza proporre una direttiva fotocopia della 183 (non sarebbe stato opportuno, giusto, onesto) avrebbe potuto e dovuto avanzare e difendere scenari fortemente improntati alla nostra legge di riferimento. Perché così non è stato? Scarso interesse per la materia, peso specifico dell’Italia non adeguato? Entrambe le cose, ritengo.

La direttive europee Acqua (2000) e Alluvioni (2007) hanno trovato applicazione in Italia?

In buona misura credo di avere argomentato fin qui su tale domanda. Posso aggiungere qualche ulteriore considerazione. Non rinvengo elementi di positività nello spezzettamento in più direttive dell’argomento difesa del suolo, se non all’interno di un quadro d’insieme che raffiguri impianto e filosofia generale e trovi poi esplicazione e dettaglio nelle singole direttive. A me pare che un impianto, una visione, una politica generale non ci sia, nemmeno a livello europeo, oltre che in Italia. Con la conseguenza che abbiamo o meglio: si sia scelta la via del riduzionismo, della frammentazione, dell’empirismo induttivo, che si può dire risultino la cifra prevalente del momento storico che viviamo. D’altro canto le istituzioni parlamentari sono effetto e specchio di quanto si muove o non si muove nel paese: quale vagito si avverte da parte delle municipalità, delle comunità scientifiche, dei tecnici, degli imprenditori, dei partiti politici, delle forze sociali? Solo e soltanto richiesta di risorse finanziarie per una generica quanto fallace richiesta di ‘messa in sicurezza’, slogan declamatori, ignoranza assoluta del ‘di-che-trattasi’, oscuramento e colpevole dimenticanza di quanto si è prodotto, pensato, realizzato negli ultimi vent’anni, almeno. E’ come se la storia non esista più e si voglia partire sempre da zero. Come può intendersi altrimenti il lavoro di ‘Italia sicura’, altrimenti? La struttura di recente messa in piedi presso la Presidenza del Consiglio ha l’esplicito, e meritorio, compito di accelerare, di promuovere, l’apertura dei cantieri per le numerose opere da tempo in posizione di stand by. Ebbene, per diretta ammissione del responsabile di Italia Sicura, è vero: la qualità progettuale non sempre è quella giusta, gli interventi sono invischiati in una rete perversa di procedure burocratiche, bisogna accelerare, accelerare… ma delle norme insufficienti, del piano che non esiste più, di collina e montagne abbandonate non se ne parla, chi ne parla, chi dovrebbe parlarne?

Nell’anno del Signore 2017 quali prospettive per la difesa del suolo: apocalittici o integrati?

Va bè… non occorre scomodare Umberto Eco e un libro che ha fatto epoca: basta o basterebbe adoperare un poco il cervello e attivare un po’ di partecipazione, recuperare una giusta dose di cittadinanza attiva. Da poco è stato pubblicato nell’aggiornamento della Enciclopedia Treccani la voce Difesa del Suolo ed Eventi Estremi: ho in quella sede sviluppato un filone di ragionamento improntato alla ricostruzione di un filo storico su quanto finora prodotto a livello istituzionale sulla difesa del suolo. Ho, lì, avanzato alcune proposte di recupero di un ethos come condizione necessaria per una inversione di tendenza. Un ethos essenzialmente basato su due parole chiave: responsabilità e modello di sviluppo. La responsabilità non solo delle istituzioni preposte ma anche, e direi soprattutto, dei soggetti competenti. Tecnici, ingegneri, geologi, agronomi, architetti, docenti universitari… sono o no classe dirigente? Intendono riappropriarsi d’un ruolo che ha fatto grande l’Europa, che ha scritto pagine importanti nel nostro paese? I laghi silani di cui parlavo prima si debbono ai costruttori di dighe, sì, ai progettisti di impianti, turbine eccetera. Ma si debbono pure ed essenzialmente all’ingegnere Omodeo, questo meridionale che non con il cappello in mano, non per chiedere, non per protestare, ma per proporre è riuscito a smuovere banche, governi, imprenditori in una visione da New Deal ante litteram. Possiamo, ingegneri e geologi, litigare far noi, possiamo, noi tutti, aspettare Godot, un Godot che se lo aspettiamo soltanto ami arriverà? Godot lo aspettiamo, va bene, se però recuperiamo quel senso di partecipazione attiva che ancor più necessita in tempi non propriamente brillanti. Fuor di metafora: coniugare saperi tecnici con scelte politiche, motivare l’azione in ambito legislativo-parlamentare, impegnarsi in prima persona per dare la nostro paese un sistema moderno e funzionante di difesa del suolo, attraverso una chiamata di alto profilo di quanto hanno voce in capitolo, da promuovere senza particolari indugi. Una chiamata che on può che partire dal modello di sviluppo e dagli strumenti d’intervento. Cementificazione, strauso e straabuso del territorio, urbanizzazione massiccia, abbandono della se pur minima azione programmatoria devono stare al centro di una riflessione accurata e però non soltanto improntata alla denuncia. Non basta la denuncia: serve la proposta, al proposta sostenibile e praticabile, da offrire alle sfere decisionali. E la proposta, ritengo, uscirà fuori. Non semplice, non immediatamente e di colpo realizzabile, ma uscirà fuori. Ed ovviamente non riguarderà solo la difesa del suolo. Potremmo dire: la difesa del suolo come metafora di un nuovo modello di sviluppo.

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