Autore: Di Cristina Pacciani, Capo ufficio stampa ISPRA

Tutto cominciò con  la  Convenzione di Aarhus sull’accesso alle informazioni, la partecipazione dei cittadini e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, firmata nella cittadina di Aarhus, (Danimarca) nel 1998 e ratificata, ad oggi, da 47 parti e dall’Italia nel 2001. L’allora Segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan la definì “il più importante esempio di democrazia ambientale”  e nessuna definizione fu più pertinente. Essa infatti stabilisce che ogni Pubblica Istituzione debba divulgare e comunicare le informazioni ambientali in loro possesso;  aggiornarle e renderle affidabili; renderle note con immediatezza senza oneri economici; creare delle reti di informazioni. Esiste qualcosa di più democratico?

La pubblica amministrazione non fu più il solo detentore delle informazioni, ma il cittadino diventò parte attiva, con diritto di accesso alle informazioni ambientali.

Il coinvolgimento e la sensibilizzazione dei cittadini, anche attraverso azioni di educazione ambientale, diventò indispensabile per assicurare a tutte le generazioni, presenti e future, il diritto a vivere in un ambiente pulito e salutare.

La Convenzione conferì a tutti quanti si occupano di comunicare l’ambiente una grande responsabilità civica. Ma si fa presto a dire comunicazione ambientale; più difficile metterla in pratica, fare informazione e comunicazione sui temi ambientali e più in generale su questioni che pertengono alla scienza.

Tema cruciale questo, su cui dibattono i maggiori esperti di comunicazione da sempre, ancor più cruciale nei nostri giorni, in cui i social network hanno dato una brusca virata all’informazione, soprattutto in situazioni di emergenza e soprattutto quando è necessario comunicare in tempi brevi, fornire dati che siano scientificamente validati, gestire situazioni complesse dove i referenti sono molteplici e farlo secondo procedure condivise.

Vorrei offrire qui qualche riflessione sul ruolo di un comunicatore istituzionale, che oggi ha a che fare con nuovi strumenti e nuove sfide quotidiane.

Prendiamo ad esempio i social network, o meglio, la rivoluzione social, di cui non sempre ne viene sfruttato a pieno l’enorme potenziale. Ad esempio: la scossa di terremoto che il 24 agosto dello scorso anno ha colpito il centro Italia ci ha costretto ad interrogarci nuovamente ed in modo ancor più profondo sul ruolo che svolgono i social media nella comunicazione del rischio e dell’emergenza in Italia. Il “Sistema” di protezione civile e tutti gli enti – compreso ISPRA – a supporto, hanno confermato la maturità del loro sistema di risposta alle emergenze, e lo hanno fatto anche attraverso twitter e i social media, che furono letteralmente invasi da hashtag come #terremoto, #rischiosismico, #protezionecivile, riportando news, immagini, aggiornamenti dall’epicentro e dimostrando sensibilità e coinvolgimento e spesso aiutando la popolazione colpita facendo pervenire loro con tempestività i soccorsi e gli aiuti di cui avevano bisogno.

Siamo stati bravissimi, quindi, a comunicare via social l’avvenuta catastrofe e l’emergenza che ne scaturisce, ma la domanda che ci dovremmo porre tutti i comunicatori è questa: si è fatto altrettanto in nome della prevenzione, della programmazione e della pianificazione? Da una ricerca condotta da CrisisLab (un progetto di ricerca finanziato dal Governo Italiano che utilizza i social media e le nuove tecnologie per innovare la comunicazione del rischio) sugli account Twitter ufficiali delle prime cinque città d’Italia, scopriamo che, nei 365 giorni che hanno preceduto l’evento sismico del centro Italia, c’è stata assenza di tweet su rischio sismico in un’ottica di sensibilizzazione e prevenzione. L’unico tweet dedicato al terremoto è quello postato dall’account del comune di Torino che, in seguito all’evento sismico avvertito nel piemontese il 30 luglio, invita gli utenti a consultare l’account ufficiale di @INGVterremoti per eventuali aggiornamenti.In fase di emergenza, ovviamente, il trend si inverte. Eppure gli account twitter, i siti sono sempre attivi e forniscono notizie h24.

Quanto detto finora pone l’accento sulla necessità di indirizzare chi vi opera, verso una comunicazione del rischio integrata e organizzata strategicamente per la promozione di tutte le fasi della protezione civile, soprattutto la prevenzione.

Perché questa assenza di twitter sul rischio in fase pre-catastrofe? Scetticismo nei confronti dei social network? Scarsa attendibilità?  Un po’ entrambe le cose. Infatti, l’utilizzo di questi nuovi canali di comunicazione interattivi è accolto ancora in maniera tiepida; basti pensare che, al 2016, il 52% delle aziende non dispone di alcun piano di comunicazione di crisi che tenga conto dei social media.

L’eredita pesantissima che tragedie come questa ci lasciano, mettono noi comunicatori istituzionali davanti ad una sfida complessa: quella di rivedere e sviluppare un nuovo discorso sul nostro ruolo nel nostro Paese, che deve puntare necessariamente anche sulla prevenzione, sul “pre” oltre che sul “post”, perché, è ora di assimilare questo concetto, la resilienza ai fenomeni calamitosi dipende anche dalla comunicazione.

Sfida complessa soprattutto per chi, come me, lavora nell’Ufficio stampa di un Istituto di ricerca finalizzata, dove occorre stabilire procedure chiare che rendano veloce la comunicazione e accessibili le informazioni e nel caso dei social media, occorre uno sforzo maggiore: non riprodurre lo stesso linguaggio dei siti internet o un linguaggio troppo istituzionale, nonostante la realtà in cui siamo calati quotidianamente, quella istituzionale. E qui si aprirebbe un ulteriore capitolo, quello della delicata e spesso impossibile coniugazione tra linguaggio giornalistico o comunque divulgativo e linguaggio tecnico-scientifico. Perché la scienza va comunicata, c’è poco da fare e va comunicata a tutti, proprio a tutti. Ricordo qui volentieri, oltre a quella citata ad inizio articolo, un’altra frase di Einstein che sintetizza con chiarezza ad inizio articolo. “Se non sei in grado di spiegarlo semplicemente, vuol dire che non l’hai capito abbastanza bene”.

Il ruolo di un addetto stampa di un’Istituzione è ancor più delicato: egli è un mediatore, a metà strada tra la professione di giornalista e il ruolo di comunicatore di un’istituzione nazionale, deve cioè mediare le esigenze del giornalista, il quadro istituzionale in cui è inserito e la scienza, che ha tempi spesso non proprio giornalistici; in più, essendo parte di una struttura istituzionale, non è chiamato a dare un’informazione gridata, ma reale e validata. Difficile, spesso impossibile far convivere tempestività, tempo reale con le esigenze e i tempi della ricerca e della scienza.

Inoltre, il comunicatore e l’informatore ambientale, tipicamente chi opera in un ufficio stampa, ha a che fare ogni giorno con la complessità dei temi;  le competenze dell’ISPRA, per quanto mi riguarda, vanno dalle emissioni di Co2 ai cinghiali, dalle frane e il dissesto idrogeologico ai rifiuti, dalla sicurezza nucleare e la radioprotezione ai pesticidi nelle acque. In tre parole, il carattere peculiare di questo tipo di comunicazione è la trasversalità: sei un giornalista, ma devi necessariamente acquisire un minimo di conoscenze di biologia, geologia, ingegneria, ma anche di economia, storia, giurisprudenza.

In molte occasioni di dibattito cui ho partecipato anche in qualità di relatrice, mi  veniva chiesto come “rinvigorire” e ringiovanire  il dibattito pubblico sulle questioni ambientali, quando negli ultimi anni – forse dopo l’11 settembre – l’attenzione è andata calando, salvo in situazioni di emergenze conseguenti a catastrofi ambientali.  Da uno studio effettuato da Pentapolis, solo il 3,3% dei servizi nei 7 principali TG italiani (Rai, Mediaset e La7) parla di ambiente nel prime time e quando lo fa, è con tono allarmistico e riguardante, come detto, calamità, spesso virando più sulla cronaca che sulla ricerca effettiva della causa ambientale di quel disastro (Fonte: L’informazione ambientale in Italia” a cura dell’Osservatorio Ecomedia). Un dato significativo se pensiamo che il telegiornale, soprattutto in alcune fasce orarie e per determinate tipologie di utenti, è ancora la fonte di informazione più diffusa.

La risposta può sembrare banale: perché si abbia la curiosità e la voglia di conoscere e ci si rivolga ad un’Istituzione, è necessario che questa sia trasparente (cioè non contaminata dalla politica), quindi “terza” rispetto ad essa, nella trasmissione delle informazioni; efficiente, tempestiva – e di questo aspetto abbiamo già parlato, chiara nel comunicare. In una parola può forse esserci la soluzione: autorevolezza. La comunicazione e l’informazione istituzionali se la sono sono conquistata sul campo, ora devono dimostrare di meritarsela. Se si è autorevoli agli occhi di chi legge, appaiono e si avvertono quella trasparenza, quella terzietà di cui si parlava prima e si comprende anche perché a volte non possiamo essere tempestivi come certa stampa ci vorrebbe.

Mi auguro che la “chiave di volta” sia quella comunicazione più capillare ed omogenea  che con l’avvento della Legge 132/2016 (Istituzione del Sistema Nazionale per la protezione dell’Ambiente) si sta mettendo in atto, con la creazione di un’altrettanto sinergica rete di comunicatori che forniscono dati omogenei e condivisi come lo sono i metodi di valutazione e controllo ambientale . Tutto questo non solo per venire incontro alle esigenze di chi fa informazione, ma soprattutto a quelle del Paese.

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