Autore: Gabriella Soveny

L’acqua è vita. E l’acqua a Roma è il Tevere.  Il leggendario biondo Tevere, tanto amato, decantato, nutrice e “funestatore” del nostro passato, a cui ci si affeziona passeggiando sulle sue rive sotto i platani, percorrendolo d’estate in battello o contemplandolo semplicemente da uno dei bei ponti che lo attraversano.

Da questa convinzione pare che si nutra l’attività dell’Onlus Tevereterno, che dal 2004 si prodiga per la vita socio-culturale ideando diversi eventi a Roma, e scegliendosi come sede il tratto del Tevere tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini, istituendovi Piazza Tevere vocata a ridare vita alla città tramite la valorizzazione dello spazio-dimensione Tevere e tramite l’arte, da sempre espressione massima, effimera e/od eterna, della vita stessa.

Il fiume per sua natura è un fenomeno locale e allo stesso tempo globale, nell’antichità fu la prima via di comunicazione. Il Tevere fu tanto ambito che gli etruschi insediatisi sulle sue rive destre dovettero perire per cedere i loro luoghi alla crescente civiltà romana. Infatti la riva destra del fiume, la zona dell’attuale Trastevere e Gianicolo, era territorio etrusco: ai tempi della fondazione di Roma fin qui arrivava la zona d’influenza dell’originale dodecapoli etrusca dell’Italia centrale. Anche le saline, situate nel luogo del futuro Portus romano (Fiumicino), erano sotto il controllo degli etruschi che in tal modo controllavano il commercio del sale, lungo il Tevere e poi la Via Salaria, fin oltre ai territori sabini nell’entroterra.  E fu lungo il Tevere che prim’ancora della nascita del Foro Boario in età regia e repubblicana (di cui sono ricordi il Tempio rotondo di Ercole Invitto, per secoli confuso con il Tempio di Vesta, e il vicino Tempio di Portuno nella piazzetta antistante la Bocca della Verità) si creò una piazza di mercato sull’antica crocevia del fiume con la Via Campana, l’asse di passaggio terrestre nord-sud, dove altari e santuari dedicati ad Ercole, leggende sul gigante Caco e altre sul re Evandro, ci testimoniano il passaggio di diverse culture e l’importanza del luogo all’epoca del Septimontium. Era appunto il guado dell’Isola Tiberina che rendeva possibile l’attraversamento del Tevere, e quindi il passaggio nord-sud, accrescendo così l’importanza dell’area già assicuratagli dal fiume.

Ma il fiume, e l’acqua in generale, dà e toglie, tramite le sue inondazioni irrora i campi, altre volte invece miete tragicamente delle vite. Come tutte le forze della natura fu divinizzata dagli antichi, e nel mondo romano le varie divinità legate all’acqua erano numerose e molto popolari. Basta pensare a Nettuno, dio del mare, assimilato al greco Poseidone, o alle numerose divinità minori autoctone e di varia provenienza quali Fons, dio dei pozzi e delle sorgenti, Ferentina, dea delle acque pescose, Furrina, dea delle acque correnti, Giuturna, protettrice delle fonti e delle fontane, Venilia, dea delle profondità marine, Lynpha, acqua fresca e limpida, o le varie ninfe e naiadi. Lo stesso Tevere fu divinizzato attraverso Tiberino che divenne il suo protettore. Queste divinità pagane, legate ai diversi culti locali, praticati nei Pagus, villaggi, e la loro futura convivenza nei culti romani ci può svelare informazioni sull’importanza e la correlazione di vari fenomeni, come per esempio la simbiosi acqua e sale, riflessa in episodi mitologici che vogliono come moglie di Nettuno una volta Venilia, una volta Salacia (dea del sale).

Tra le moderne religioni è proprio il nostro cristianesimo quello che dà una continuità al concetto di sacralità dell’acqua, celebrandola nel rito del battesimo. A Roma c’è stato un bellissimo progetto  nel ‘500  quando nella progettazione della Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini in Via Giulia, aperta qualche decennio prima su progetto del Bramante commissionatogli da papa Giulio II, si è pensato di collocare l’abside della Chiesa direttamente sopra il Tevere, di modo che tramite la fonte battesimale si potesse immergere i credenti nelle acque del fiume.

Per la storia di Roma il tratto più significativo del Tevere è proprio la zona dell’Isola Tiberina, della quale Piazza Tevere si è assegnato il tratto del lungo rettilineo incluso tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini (parte più adatta a manifestazioni e mostre, i.e per un rilancio sociale-artistico) della dimensione – coincidenza? – del Circo Massimo. È questa la zona, dove si arenò la cesta con i gemelli Romolo e Remo, è qua che qualche secolo dopo i rè etruschi di Roma fecero sfociare le acque drenate della crescente città tramite la Cloaca Massima, è qua che all’altezza dell’Aventino nacque il primo ponte di Roma, il Sublicio, ponte in legno tutto smontabile; è qua sull’isola che si scelse di stabilire il culto di Esculapio, quando all’inizio del III sec. a.C. fu importato dalla Grecia per scongiurare una grave epidemia dilagante e per il cui ricordo l’Isola fu rimodellata a forma di nave; qua nacque il primo porto fluviale all’altezza del Foro Boario e anche il secondo, quello della Roma papalina, la Ripa Grande sulla sponda opposta. Ed è sempre qua che secondo la leggenda il popolo simbolicamente si liberò dal suo oppressore, Tarquinio il Superbo, gettando nel Tevere dopo la cacciata del rè il grano mietuto a Campo Marzio, proprietà reale, dando così origine all’Isola Tiberina.

Ma si possono evocare anche momenti più ludici o meno solenni ma altrettanto importanti che si legano a questo posto. Per esempio nel 13 a.C. quando Cornelio Balbo stava per inaugurare il suo Teatro (di cui oggi sopravvive la Crypta Balbi, una delle quattro sedi del Museo Nazionale Romano) ci fu un’improvvisa inondazione che rese impossibile l’arrivo al teatro a piedi. Balbo per nulla scoraggiato, ordinò ai suoi servi di preparagli la barca con la quale arrivò in pompa magna all’inaugurazione, trasportandovi giustamente anche lo stesso imperatore Augusto. Mentre dall’altra parte del Tevere, legato a Villa Chigi-Farnesina c’è il racconto su Agostino Chigi, costruttore e primo proprietario della bellissima villa rinascimentale, che a quanto si raccontava sul suo conto, era solito a fine cena gettare tutti i piatti e vasellame d’argento nel Tevere, ostentando così la propria ricchezza davanti agli ospiti, ma all’alba successiva li faceva diligentemente recuperare dalla sua servitù con delle apposite reti da pesca. Beh, in fin dei conti era un bancario … Invece una serena scena di vita quotidiana ce la offre il ricordo dei tanti mulini e delle casupole che, nella zona dell’Isola, dai tempi antichi sino alla costruzione dei muraglioni sabaudi riempivano il lungofiume.

Questa è quindi la visione che Piazza Tevere intende restituirci, offrendoci uno spazio sull’acqua dove ricordare il passato e celebrare, vivere il presente e il futuro. Il mega-fregio intitolato “Triumphs and Laments” dell’artista sud-africano William Kentridge, inaugurato lo scorso 21 aprile in occasione del 2769° natale di Roma sui muraglioni del tratto della Piazza, ci racconta simili momenti di gloria e di sofferenza, che nel bene e nel male, nel grande e nel piccolo, hanno fatto la storia di Roma.

Un aspetto fondamentale del concetto artistico è la scelta della tecnica: il fregio è realizzato in negativo, con l’asportazione dal muro degli strati depositati di smog e sporcizia, senza l’applicazione di materiali aggiunti, per cui l’opera nasce già per una vita breve, tributando così a priori alla natura quella forza vincente che nel giro di qualche anno la cancellerà. Ma intanto godiamone adesso, e lasciamoci trasportare dall’opera nel passato, sapendo che in breve sarà svanita, come sarà corsa via l’acqua del Tevere.

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