Dibattito

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INVESTIMENTI NEL SETTORE IDRICO: SUPERAMENTO DEL GAP INFRASTRUTTURALE E CONTRIBUTO PER USCIRE DALLA CRISI *
Roma, maggio 2010Le infrastrutture necessarie per lo svolgimento del servizio idrico integrato nel nostro Paese soffrono da tempo di una indubbia carenza di investimenti per una serie di motivi storici, economici, organizzativi….
Gli investimenti pubblici e privati in questo settore sono inferiori al dovuto ed i risultati di questa palese sottocapitalizzazione già sono manifesti (elevate perdite idriche, rischio di sanzioni comunitarie per gli scarichi,…).
Le associazioni rappresentative dei soggetti che sono maggiormente coinvolti sul fronte delle politiche industriali riguardanti la costruzione e la gestione di queste infrastrutture ed in particolare: AGI (Associazione Imprese Generali), ANIMA (Associazione Nazionale Industrie Meccaniche e Affini), Federutility (Federazione delle Imprese Energetiche e Idriche) hanno messo a punto la presente proposta tesa a indicare le possibili linee di rilancio, indicando le quantità in gioco, gli obiettivi perseguibili, gli ostacoli da rimuovere e superare.
1. OBIETTIVI, BENEFICI E STRUMENTI
La sfida che si intende avanzare si proietta su un arco di dieci anni. In particolare essa prevede una crescita del 50 % degli investimenti oggi programmati nel settore onde recuperare il ritardo accumulato, ed una fase a regime nei cinque anni successivi.
Quanto ai benefici ottenibili attraverso la proposta, si citano in particolare:
• La riduzione delle perdite idriche
• Il risparmio energetico, tramite il rinnovo e l’efficientamento dei sistemi di distribuzione e di trattamento con conseguente minor quantità di C02 immessa in atmosfera dall’intera filiera.
• La regolarizzazione rispetto alle norme nazionali ed europee degli scarichi di acque reflue con miglioramento della qualità ambientale e limitazione dei rischi di procedure d’infrazione.
• La garanzia di continuità e qualità dell’approvvigionamento idrico, sopratutto nel Mezzogiorno.
• Un forte ruolo anticiclico degli investimenti nel settore rispetto all’attuale andamento congiunturale, con crescita della domanda interna e benefici effetti sul mercato del lavoro.

Riguardo a quest’ultimo punto, l’effetto occupazionale diretto ed indiretto in fase realizzativa, è stimabile in una fascia compresa fra 160.000 e 220.000 unità.

Data la dimensione dei numerosi comparti coinvolti in questo programma di rinnovo, l’effetto sull’occupazione sarebbe in ogni caso ingente ed esteso territorialmente e settorialmente.
Questi gli strumenti per conseguire il risultato atteso si fa riferimento in particolare:
– Revisione del quadro di regolazione.
– Nuovo approccio nella pianificazione/realizzazione degli investimenti.
– Nuovi strumenti finanziari.
– Semplificazioni procedurali.
strumenti più dettagliatamente illustrati nei punti successivi.2. LA SITUAZIONE ORGANIZZATIVA DEL SERVIZIO IDRICO INTEGRATO E LA CAPACITÀ DI
INVESTIMENTO
Per valutare il livello di organizzazione dei servizi idrici in Italia, occorre fare riferimento allo stato degli affidamenti in relazione all’attuazione della legge del 5 gennaio 1994 n.36 la c.d. legge Galli (ricompresa poi nella parte III del DLgs 152/2009), che aveva istituito il servizio idrico integrato prevedendo l’organizzazione congiunta dei servizi di acquedotti, fognature e depurazione a livello di Ambiti Territoriali Ottimali (c.d. ATO) individuati dalle Regioni. Ad oggi il numero degli ATO definiti dalle diverse leggi regionali (l’unica eccezione per via dello statuto speciale sono le province autonome di Trento e Bolzano) ammonta complessivamente a 94.
Sulla scorta dei dati contenuti nell’ultimo rapporto sullo Stato dei Servizi Idrici a cura del COVIRI (luglio 2009), è comunque possibile ricavare, pur nelle more della completa attuazione della riforma del ’94, una serie di elementi fortemente indicativi per l’intero Paese.
Gli ATO previsti sono in tutto 92, di questi 84 hanno già adottato il piano d’ambito, documento propedeutico alla gestione secondo i criteri previsti dalla legge n.36/94. L’affidamento al gestore del SII è stato effettuato in 69 ATO mentre le società affidatarie sono 114 (con una media di 1,7 gestori per ATO).
Con riferimento al modello adottato, le attuali società affidatarie sono così ripartite:
6 %affidamento (concessione) a terzi
27 %società mista pubblico privato
51 %società in house
16 %situazioni transitorie/non definite.In termini di popolazione servita riferita ad oltre 56 milioni di abitanti la situazione che si presenta è la seguente:
5 %affidamento (concessione) a terzi
36 %società mista pubblico privato (19 % soc.quotate e 17 % PPP)
35 %società in house
4 %situazioni transitorie/non definite
20 %affidamento non ancora avvenuto.Gli investimenti stimati dai piani d’ambito ad oggi assentiti, ovvero per 76 dei 92 ATO previsti, ammontano complessivamente a 41,8 miliardi di Euro. Sulla scorta

delle valutazioni contenute nel Blue Book 2009 [1], l’estrapolazione di questa voce a tutto il territorio nazionale indica che il valore complessivo della spesa per investimenti prevista per i prossimi 30 anni risulta pari a 60,5 miliardi di Euro, spesa in gran parte destinata (56 %) a manutenzione straordinaria di opere esistenti. I contributi pubblici a fondo perduto ammontano a 6,3 miliardi di Euro e corrispondono al 10,5 % della spesa complessiva pre sentando comunque una maggiore incidenza

nel Mezzogiorno.

Le ripartizioni, per area territoriale e per tipologia, sono riportate nelle Tabelle I e II.
Con riferimento ai dati disponibili è allora possibile confrontare le previsioni di investimento con le relative realizzazioni.

Nell’ultima relazione del COVIRI, prendendo a riferimento gli ATO già operativi, si può evidenziare che il tasso di realizzazione dell’insieme degli investimenti, rispetto alle previsioni ammonta in media al 55,8 %. La Tabella III successiva mostra la ripartizion e territoriale di tale dato.

Tenuto conto in ogni caso che la durata dei piani si proietta su un arco temporale di 25-30 anni è evidente che con gli attuali ritmi, per realizzare le infrastrutture ritenute
necessarie occorrerebbe almeno mezzo secolo, con ritardi oltretutto superiori proprio in quelle aree (Mezzogiorno) che, al contrario, richiederebbero un più massiccio intervento.

Non occorrono profonde analisi per arrivare alla conclusione che questa situazione è oggettivamente inaccettabile!
La proposta indicata di accelerazione degli investimenti in campo idrico per i prossimi dieci anni consistente nell’esecuzione del 50 % in più degli investimenti programmati per i primi cinque anni e la messa a regime per i successivi cinque, è riportata nella Tabella IV.
Tenuto conto della eterogeneità delle situazioni riscontrate e dei ritardi accumulati rispetto a precedenti pianificazioni si è fatto riferimento al valore medio annuo (arrotondato) di tabella 1 che corrispondente a 2.000 milioni di euro all’anno.
Ovviamente per avere una rapida ed agevole cantierabilità delle opere così da imprimere l’auspicata accelerazione andrebbero, almeno in una prima fase, privilegiati investimenti collegati alla manutenzione straordinaria (che rappresenta il 56 % del piano finanziario complessivo) o al potenziamento di infrastrutture esistenti.
Nella stessa tabella, sulla base del differenziale di aumento degli investimenti rispetto all’andamento storico è stato anche stimato l’impatto occupazionale per quanto riguarda le maestranze impegnate nell’attività realizzativa e nell’indotto [2].3. I RISCHI E I COSTI DEL NON AGIRE
Il Blue Book 2009, certifica l’involuzione del sistema idrico che persiste nel sopravvivere sulle continue emergenze locali e non riesce a darsi una pianificazione globale di lungo periodo.
Questa situazione genera un “fisiologico abuso” delle procedure di emergenza, che generano costi sensibilmente superiori, qualità delle opere ed impianti sovente a rischio, ecc.
Continuano a far sentire i propri effetti la mancanza di un efficiente regolazione delle concessioni di derivazione e la perdurante assenza di un Authority indipendente. L’insufficiente redditività del servizio idrico combinata con una limitata disponibilità di finanziamenti a fondo perduto comporta, inoltre, il continuo rinvio degli investimenti e quindi della modernizzazione del settore. In ogni caso a seguito anche della recente legge 26 marzo 2010, n. 42 sugli enti locali che, fra l’altro, abolisce le attuali autorità d’ambito (soggetti di diretta emanazione dei Comuni e quindi naturali portatori di conflitto d’interesse), si rende ancora più necessario procedere ad una evoluzione dell’attuale quadro regolatorio. Tale evoluzione dovrebbe far perno soprattutto sulla regolazione indipendente di settore.
Le problematiche che attualmente interessano il settore potrebbero essere causa di diseconomie e malfunzionamenti come ad esempio livelli di servizio lontani da quelli ottimali, scarsa competitività all’estero delle nostre aziende idriche ed ulteriori inadempimenti a livello comunitario. Tenuto conto, infatti, del rischio emerso di recente di un possibile avvio di procedura di infrazione da parte della Comunità Europea nei confronti del nostro Paese su numerosi impianti di depurazione che non sarebbero conformi alla Direttiva 91/271/CE, vi sarebbe l’esigenza di una decisa accelerazione degli investimenti soprattutto per il comparto fognario/depurativo. Nella Figura 2 seguente si riporta il numero degli impianti per i diversi territori regionali su cui sono in corso di verifica possibili inadempimenti.4. GLI INTERVENTI CORRETTIVI NEL SETTORE IDRICO PER RILANCIARE L’ECONOMIA
La situazione di paralisi o comunque di estrema lentezza nello sviluppo degli investimenti previsti nei piani d’ambito, dipende da molteplici fattori e non solo di natura finanziaria. E’ evidente in ogni caso che l’ingente fabbisogno finanziario di cui necessita il sistema non può far carico unicamente alla leva tariffaria in quanto incapace di generare in tempi brevi le risorse per fare fronte al debito. Ciò non toglie che comunque questa leva debba essere utilizzata, soprattutto perché la situazione a livello UE mostra che le tariffe applicate in Italia, anche dopo la riforma introdotta nel ’94, si mantengono a valori minimali, il che fa capire che esiste nel nostro Paese un indubbio margine di manovra rispetto ad altri partner comunitari operanti nelle stesse condizioni di mercato (si pensi ai costi dell’energia) e con regole ambientali che sono, ovviamente, le stesse per tutti.
Ciò premesso, alla luce della esigenza di rilanciare gli investimenti indichiamo le diverse leve sulle quali potere agire.– Regole certe, chiare e trasparenti sulle tariffe
Le difficoltà che incontra il settore idrico nel comunicare all’utenza le ragioni di un incremento tariffario non trovano eguali negli altri servizi pubblici. Un passaggio dirimente in questa direzione richiede l’adozione di metodi di calcolo di semplice interpretazione ed applicazione. Purtroppo il settore risulta ancora disciplinato da meccanismi obsoleti e raramente aggiornati nei tempi e nelle modalità previste. Questo dà luogo ad incertezza negli operatori e scarsa chiarezza per i cittadini. Una soluzione possibile potrebbe essere la previsione di regole tariffarie semplici, uniformi sul territorio nazionale, di facile applicazione, aggiornate con doverosa tempestività e trasparenti per l’utenza finale. Una rapida chiusura dell’iter di revisione del metodo tariffario che il COVIRI aveva da tempo avviato, potrà portare un contributo importante purchè naturalmente consenta, pur con la dovuta gradualità, di rinvigorire la dinamica tariffaria su livelli più “europei” (vedi Figura 3).
Tutto ciò mirando ad assicurare un’equilibrio tra la tutela del cliente ad avere un servizio efficiente e la garanzia al gestore a vedersi riconosciuta un’adeguata remunerazione del capitale investito, così da produrre quelle risorse che possono poi garantire la bancabilità dei piani di investimento. Il nuovo metodo tariffario dovrà poi consentire di riconoscere in tariffa il costo finanziario sopportato dal gestore per una anticipazione degli investimenti, oltre il tetto fissato dal metodo. Si tratta inoltre di chiarire che il metodo applicato è un “revenue-cap” e non un price-cap.
Si propone poi di accompagnare l’adozione dei piani economico-finanziari dall’asseverazione da parte di istituti di credito che ne attestino la coerenza e l’equilibrio economico – finanziario. Analoga previsione deve accompagnare le singole previsioni periodiche, per scoraggiare l’adozione di tariffe “politiche” non in grado di sostenere la gestione e gli investimenti previsti. Strumenti particolarmente indicati per promuovere investimenti complessi, come il Project Financing  andrebbero inoltre valorizzati,
e non scoraggiati come si riscontra ancora, nell’ambito della proposta di nuovo metodo tariffario.
Riguardo poi all’impatto economico/sociale va ricordato che, più che mai nel settore idrico, si può parlare di patto inter-generazionale nella tutela di un bene primario della comunità.
Destinare parte degli incrementi tariffari al sostegno delle famiglie disagiate (certificazione ISE secondo il modello introdotto nei settori energetici) consentirebbe allora di utilizzare la leva tariffaria minimizzando il rischio di penalizzare queste fasce sociali. Superare la logica delle tariffe basse per tutti influirebbe positivamente, oltretutto, anche nel riportare i consumi pro-capite ai livelli europei. La soluzione alternativa di utilizzare strutturalmente la leva fiscale non appare nell’immediato percorribile.
Non va infine dimenticato che allo stato attuale nell’ambito del “paniere di spesa” (Blue Book 2009) di una famiglia media, il servizio idrico grava solo per lo 0,7 %, un terzo rispetto alla spesa per telecomunicazioni ed un sesto rispetto a quanto viene destinato per combustibili ed energia elettrica.

– Certezza negli affidamenti
La disciplina degli affidamenti ha raggiunto i livelli di complicazione a causa di uno straordinario stratificarsi di interventi tra loro incoerenti. Stabilire oggi la durata di un contratto in essere richiede una indagine ad hoc, dall’esito incerto. Ancora più difficoltoso è il disegno di nuovi affidamenti. Non esiste un modo migliore per bloccare qualsivoglia iniziativa di investimento o di ammodernamento nel settore. Tutto questo accade in uno Stato membro della Unione Europea che, come noto, ha fatto della certezza del diritto, e quindi delle regole applicabili ai contratti di natura pubblica, uno dei capisaldi della propria azione legislativa e politica. Se si intende fornire agli operatori esistenti la possibilità di applicare i programmi ad oggi elaborati, si deve delineare un quadro normativo nel quale le convenzioni esistenti, sia pur perfettibili, risultino di piena validità e di certa durata. E’ comunque auspicabile, accanto ad interventi strutturali, l’emanazione di norme che in presenza di criticità sulla durata degli affidamenti garantiscano, con cadenza annuale, la remunerazione del capitale investito e una sorta di indennizzo sul capitale non ammortizzato e non remunerato in caso di subentro di altro soggetto gestore. Alla luce dell’avvenuta conversione in legge del Decreto n.135/2009 sui servizi pubblici locali, fra cui l’acqua, e dei passaggi complessi/delicati che ciò comporta nella organizzazione dei servizi si auspica che nel testo finale del previsto regolamento che deve essere emanato possano trovare accoglimento tutte quelle soluzioni proposte che sono tese a garantire il più possibile passaggi non traumatici fra i diversi regimi gestionali.

– Reimmettere nel settore le risorse pubbliche in esso generate 
Un settore che appare bloccato nella propria capacità di investire ed attrarre operatori finanziari, potrebbe significativamente beneficiare da un atteggiamento delle istituzioni teso a re-immettere nel settore le risorse da queste percepite, in forma di dividendo azionario o di corrispettivo di concessione. Se la riforma introdotta negli anni Novanta ha progressivamente migliorato i saldi di contabilità delle amministrazioni pubbliche titolari della gestione latu sensu, non appare chiaro il motivo per cui tale processo debba giungere sino a sussidiare altre attività, sottraendo risorse agli investimenti necessari al servizio idrico. Tale impostazione dovrebbe essere perseguita anche in presenza di gestioni miste che sono la novità dell’ultimo decennio.

– Finanziamenti pubblici ed effetto moltiplicatore
Allo scopo di facilitare/accelerare la realizzazione degli investimenti, soprattutto per quelle situazioni caratterizzate da più elevato impatto sulla tariffa per via del deficit infrastrutturale da colmare, appare quanto mai opportuno prevedere fondi pubblici di accompagnamento e sostegno per cofinanziare i previsti interventi. Si ha ragione di ritenere, da un lato, che questa operazione non debba essere limitata alle sole aree QCS e, dall’altro, che i fondi ulteriormente stanziabili possano essere comunque contenuti, potendo contare sull’effetto moltiplicatore che ne conseguirebbe. In ogni caso la coerenza dei percorsi avviati in materia di riforma dei servizi idrici da parte del soggetto gestore dovrebbe rappresentare un indispensabile prerequisito di accesso. Un ulteriore fattore di selezione riguardo agli interventi da sostenere potrebbe ragionevolmente essere rappresentato da quelle azioni che contribuiscono a ridurre i rischi di sanzioni comunitarie.

– Defiscalizzazione di opere ed investimenti relativi
Anche lo strumento fiscale può svolgere un positivo ruolo di sostegno con particolare riferimento a quegli interventi volti ad adempiere ad obiettivi comunitari (acque reflue ed efficienza energetica).
– Hydro – bond; Cassa Depositi e Prestiti
L’emissione di obbligazioni di durata medio – lunga, commisurata ai programmi di investimento da implementare, e supportata da garanzie di natura pubblica che riducano gli spread da applicare, permetterebbe di attirare risorse finanziarie che appaiono di sempre più difficile reperimento nel servizio idrico. Si sottolinea inoltre l’importanza dell’utilizzo e della valorizzazione della Cassa Depositi e Prestiti, con l’obiettivo di sostenere, a costi competitivi, la liquidità del sistema per avviare le iniziative previste, evitando il più possibile che lo sviluppo di infrastrutture o di piani di manutenzione straordinaria si traducano nei prossimi anni in incrementi tariffari che potrebbero risultare insostenibili per una parte delle famiglie e delle imprese specie in questa fase di contingenza economica. Va da sé che operazioni finanziarie in grado di dilazionare l’impatto
tariffario sono ipotizzabili solo in presenza di certezze sulla durata degli affidamenti e sulle dinamiche tariffarie future.

– Rapidi processi autorizzativi. Definizione degli Accordi di Programma di cui all’art.158 del d.lgs. n. 152/2006 (ex art.17 legge n.36/’94)
In ragione della rilevanza degli investimenti nel settore e della finalità dettata a garanzia la piena disponibilità a costi sostenibili di un servizio essenziale è ipotizzabile l’adozione di una “legge obiettivo regionale” che attraverso la formale approvazione dei Piani Operativi attuativi dei Piani economici e finanziari, consenta di superare, almeno, tutti gli atti autorizzativi di competenza dei singoli Enti locali e di contingentare quelli degli organismi centrali. E’ necessario evitare che la procedura autorizzativa connessa alla localizzazione degli impianti divenga uno strumento di interdizione come spesso accade.
E’ indispensabile far prevale gli interessi collettivi e solidaristici all’interno del bacino di riferimento.
E’ inoltre indispensabile da parte dei Ministeri dell’Ambiente e delle Infrastrutture una forte azione nei confronti delle regioni meridionali interessate per giungere rapidamente alla sottoscrizione di Accordi di Programma per consentire la realizzazione delle opere interregionali utilizzando strumenti incentivanti per le regioni che raggiungano l’obiettivo in un arco di tempo definito. Appare indispensabile definire a livello nazionale obiettivi in linea con quelli stabiliti per il servizio idrico nella premialità dei fondi comunitari e nazionali per il periodo 2007-13. In particolare:
percentuale di acqua erogata sul totale dell’acqua immessa in rete: obiettivo 75% al 2013;
abitanti equivalenti serviti da impianti di depurazione delle acque reflue con trattamento secondario e terziario, in rapporto a quelli equivalenti totali urbani. Obiettivo 70% al 2013.

– Adeguamento/aggiornamento di norme tecniche
Anche la stessa normativa tecnica può rappresentare un elemento di promozione per nuovi investimenti specialmente in quei settori di attività che maggiormente si avvantaggerebbero da un uso razionale delle risorse idriche, come il riuso delle acque reflue e la misurazione dei consumi. Si impone allora il superamento dell’incertezza in merito al finanziamento della gestione degli impianti di “recupero” di acque reflue previsti dal DM n.185/2003. I costi di gestione degli impianti di recupero possono essere finanziati dalle regioni attraverso una adeguata valorizzazione dei canoni di concessione di derivazione di acqua pubblica. Tali politica consentirebbe tassi elevati di investimento e riflessi positivi immediati sull’occupazione. Per i comparti a valle dei depuratori i vantaggi di disporre di acque trattate non potabili (di minore pregio e costo) consentirebbe in molti casi una maggiore competitività economica sia per le lavorazioni industriali (scambio termico, antincendio, lavaggi ecc.) che per lo stesso comparto irriguo. Questo tuttavia richiede significative modifiche al citato DM che ad oggi appare incomprensibilmente come uno fra i più “severi” al mondo, con l’effetto di bloccare sul nascere qualunque iniziativa.
Anche per quanto riguarda i misuratori dell’acqua sarebbe opportuno un loro adeguamento, al pari quanto già avvenuto per i contatori di energia. Nell’ambito dell’implementazione della direttiva europea sulla metrologia 2004/22/CE, già recepita con D.Lgs. n. 22 del 2/2/2007, appare opportuna la introduzione di limiti temporali sulla vita utile dei contatori domestici, considerata la significativa vetustà degli stessi (oltre un terzo di questi ha superato i 15 anni di vita). Un tale provvedimento, di limitato impatto economico sull’utenza consente di migliorare la qualità della misura dei consumi e quindi la trasparenza delle procedure ed ha il pregio di coinvolgere tutto il territorio oltre che essere attivabile in tempi assai limitati.

– Idonei meccanismi per gli appalti
Allo scopo di garantire che una auspicata accelerazione nella manutenzione straordinaria e nella realizzazione di opere infrastrutturali dia luogo ad effetti duraturi sulla qualità dei servizi, occorre che gli appalti riguardanti l’intera filiera realizzativa facciano soprattutto riferimento a quei meccanismi previsti dal DLgs 163/2006, in grado di privilegiare risposte e soluzioni qualitativamente avanzate. Rientrano in questa categoria l’offerta economicamente più vantaggiosa (rispetto al massimo ribasso), e l’applicazione dell’art 234 del citato DLgs nei capitolati sia di fornitura che di fornitura e posa, utile quest’ultimo, per favorire la competitività delle Aziende Produttrici Italiane e di Paesi firmatari il Government Procurement Agreement con altre provenienti da paesi Terzi. In ogni caso il sistema regolatorio-tariffario dovrebbe aprirsi completamente ai meccanismi del project financing che, come mostra anche l’esperienza internazionale, si sono dimostrati particolarmente proficui in termini di qualità di risposta e di tempi di intervento. All’interno di queste procedure poi, un ricorso più esteso ai meccanismi del green procurement non farebbe che enfatizzare ulteriormente gli aspetti di salvaguardia proambientale nonché di igiene e di sicurezza per la gran parte degli investimenti infrastrutturali previsti.

6. CONCLUSIONI
Nessuno tra i settori di pubblica utilità, come il servizio idrico, ha sperimentato un processo di riforma tanto radicale: integrazione verticale (acquedotto, fognatura e depurazione) e orizzontale (costituzione delle ATO) della filiera, programmazione dettagliata e di lungo periodo delle opere da realizzare, nuova disciplina tariffaria, ecc.
Peraltro la spinta riformatrice, fondata su articolate discussioni ed elaborazioni ideali, che nella prima metà degli anni ’90 aveva messo al centro della propria attenzione tale servizio si è progressivamente arenata dando luogo ad una paradossale situazione di stallo degli investimenti, di non modificabilità dei corrispettivi tariffari, di trascuratezza nel monitoraggio dei livelli di prestazione e di qualità del servizio, di incoerenza organizzativa della ripartizione delle competenze pubbliche e di rigidità nei costi operativi. Se sotto il profilo amministrativo e formale delle riforme si sono prodotti risultati evidenti – ATO costituite in quasi tutto il territorio – , sotto il profilo invece della effettiva implementazione valgono considerazioni di segno opposto. La relazione ha indicato i limiti attuali ma anche le possibili soluzioni al problema. Questo naturalmente è tanto più importante in questi momenti nei quali da una decisa ripresa nella re-industrializzazione ed “efficientamento” del servizio idrico, recuperando anche sul tempo perduto, potrebbe derivare una forte sollecitazione all’intero sistema economico ancora travagliato da una situazione di crisi il cui completo recupero potrà avvenire nella misura in cui i diversi comparti dell’economia, fra cui i servizi, riusciranno a funzionare a pieno ritmo e a trascinare l’intero sistema.
Da non trascurare poi l’impatto diretto positivo che si avrebbe sulla popolazione, che toccherebbe velocemente con mano i risultati positivi di questa azione, visto il “contato quotidiano con l’acqua”, che persone ed imprese hanno abitualmente.

* Il Piano – illustrato in conferenza stampa nell’ambito della X edizione della Mostra internazionale H2O presso la Fiera di Ferrara da Roberto
Bazzano (presidente Federutility e Iride Spa), da Giancarlo Cremonesi (presidente Confservizi e Acea Spa), da Maurizio Brancaleoni (vice presidente
di Anima Meccanica varia di Confindustria) e da Andrea Cirelli dell’Autorità Acqua e Rifiuti dell’Emila Romagna – è stato inviato al Ministro
dell’Economia Giulio Tremonti, al Ministro per le Infrastrutture Altero Matteoli, al Ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo e al Ministro
per i Rapporti con le Regioni Raffaele Fitto, oltre che al Presidente della Conferenza Stato-Regioni Vasco Errani.

[1] Rapporto annuale sulla situazione dei servizi idrici realizzato da Utilitatis ed Anea.

[2] Sulla scorta dei dati forniti dalla Relazione annuale 2008 dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori servizi e forniture del 25 giugno 2009, si rileva che con un aumento dell’importo dei lavori pubblici di un miliardo di euro si creerebbero, fra attività diretta ed indotto, fra 11.700 a 15.600 nuovi occupati.

L’ACQUA, L’ECONOMIA E LA MORALE

Ricordo qualche dato già offerto in un precedente articolo: secondo la FAO i 15.000 m3 d’acqua che servono in media a irrigare un ettaro di riso delle moderne varietà ad alto rendimento, bastano a 100 nomadi e a 450 capi di bestiame per tre anni; a 100 famiglie rurali per tre anni; a 100 famiglie urbane per due anni; a rifornire 100
clienti di alberghi di lusso per soli 55 giorni.
Questi numeri danno immediatamente idea che l’acqua ha un ruolo fondamentale nell’economia di mercato. Quando nel 1995 la Banca Mondiale lanciò l’allarme sull’emergenza idrica(1) individuò tra le cause principali l’inefficienza gestionale (coincidente spesso con un accentramento dei sistemi di gestione idrica sotto il controllo dello Stato e poco in quello privato) e il fatto che si considerasse l’acqua un bene gratuito o di basso costo. Riprendendo la Carta di Dublino del 1992, legittimò il concetto che l’acqua doveva essere trattata come un “bene economico” e prospettò che la soluzione all’emergenza idrica si poteva trovare nella definizione di criteri di “produttività dell’acqua” come oramai consuetudine nella maggior parte dei paesi occidentali (o occidentalizzati).
I criteri economici, pur legittimi in quanto di economia si tratta, vanno tuttavia ponderati e proposti con molta cautela infatti ignorando il fatto che l’acqua è un diritto degli esseri umani si rischia di aumentare il divario e la conflittualità latente tra i paesi sviluppati e quelli non; di creare cicli inflattivi virtuali dato che i maggiori costi dovrebbero alla fine essere coperti sotto altre forme dagli Stati dei PVS (dove per inciso il reddito pro-capite è mediamente meno di 10 dollari al giorno) e, per assurdo, privilegiare l’uso idrico per scopi industriali piuttosto che agricoli innescando processi conflittuali sull’uso della risorsa con gravi conseguenze per l’uomo e l’ambiente.
Banalizzando e a solo titolo di esempio, dal punto di vista economico, 1000 tonnellate d’acqua utilizzate nei campi producono circa una tonnellata di frumento del valore di 200 dollari e invece possono aggiungere valore alla produzione industriale per circa 14.000 dollari.
Per completezza al tema economico dell’acqua è necessario inoltrarsi nella spinosa questione della privatizzazione dell’acqua che, sia pur erroneamente, nel dibattito collettivo lo identifica. Si assiste oggi giorno ed ad ogni livello politico, ad uno scontro tra chi è a favore e chi è contrario alla privatizzazione dell’acqua, ovvero all’affidamento della distribuzione dell’acqua a società private. Tra le varie questioni si discute se è morale affidare la gestione di un bene primario a dei privati che ne traggano profitto. Mi pare francamente un problema mal posto ed oltretutto incentrato -per quanto spesso si trascuri di dirlo- sulla sola quota ad uso idropotabile ed igienico sanitario a scala urbana, quando invece i grandi consumi d’acqua sono in agricoltura e nell’industria. Si discute sul come ma non sulla soluzione del problema ormai di proporzioni gravissime (1.4 miliardi di persone senza accesso all’acqua!). Il problema è complesso e sono molteplici le variabili che influenzano la soluzione, per cui qualsiasi generalizzazione è fuorviante nella ricerca delle soluzioni.
Ogni paese in ragione della sua storia, delle sue caratteristiche idrologiche, dello status politico, del livello di infrastrutturizzazione, dell’economia richiede la ricerca di una soluzione ad hoc perché sia efficace e risponda alle esigenze del paese.
Personalmente non trovo scandalosa la privatizzazione per se purché vengano garantiti i diritti primari (uso idropotabile ed igienico-sanitario nella misura e qualità necessarie) e i costi siano controllati, ovvero equi affinché l’accesso all’acqua sia garantito anche alle fasce economicamente più deboli così come all’agricoltura perché la peculiarità ambientale, sociale, culturale e la produzione di cibo siano garantiti. D’altra parte altri ed innumerevoli beni, anch’essi vitali, sono in mano ai privati e nessuno grida allo scandalo. Rimango tuttavia scossa nel sapere che la privatizzazione risulta in dati sconcertanti: in Kenya un litro d’acqua costa 0,93 US$ mentre il costo di un litro di benzina è di 0,83US$; in Burkina Faso per un allacciamento alla rete idrica (gestione Vivendi) il costo è di 220 euro a fronte di reddito medio giornaliero procapite di mezzo euro al giorno; in Bolivia la ditta Aguas del Illimani (gruppo Suez) ha disposto che il costo dei nuovi allacciamenti al El Alto e a La Paz a 450 dollari. Una cifra impossibile da pagare per numerose famiglie, il cui reddito mensile non supera i 50 dollari.
Volendo proporre una visione bonaria, non credo si tratti solo di azioni vessatorie da parte dei gestori privati, ma di costi che le società sostengono. Essendo legittimamente e palesemente società di profitto, predispongono i propri investimenti affinché il capitale investito e i costi di gestione ritornino nell’arco di massimo qualche decennio e ne abbiano un beneficio economico.
Vale allora la pena di chiedersi, prima ancora di parlare di privatizzazione, su chi deve sostenere i costi della gestione ordinaria e anche quelli per le nuove infrastrutture. Nei nostri paesi, i grandi investimenti sono stati fatti dallo Stato (ed oggi ancora in Italia interviene nelle grandi opere strategiche) e a fondo perduto; la gestione di lungo periodo sotto l’aspetto economico-finanziario è stata pessima, ma non altrettanto dal punto di vista sociale giacchè tutti noi (o quasi) abbiamo oggi la fornitura d’acqua in casa e beneficiamo di acqua di qualità controllata.
L’affidamento alle nuove società di gestione private o pubbliche nei nostri paesi riguarda quindi e prevalentemente aspetti di gestione ordinaria, di manutenzione ed adeguamento delle infrastrutture. Al processo di privatizzazione è stata creata una solida base legislativa e messi a punto, anche sotto il profilo giuridico-legislativo, sistemi di ottimizzazione delle infrastrutture a scala territoriale perché la gestione sia (come recita la legge 36/94 con al creazione delle ATO) “efficiente, efficace ed economica”.
Nei paesi in via di sviluppo invece la situazione è diversa: occorre fare grandi investimenti per realizzare dighe, reti di distribuzione, impianti di potabilizzazione, collettori fognari, sistemi di depurazione, impianti desalinizzazione, serbatoi artificiali etc. La prima domanda è quindi chi sostiene gli investimenti? La seconda: è affidabile chi opera il controllo sugli investimenti e possiede gli strumenti di controllo? La terza: si tratta di investimenti a fondo perduto o no? La quarta: esistono nel paese dove si vuole operare i meccanismi legislativosociali perché gli investimenti funzionino? Soddisfatte queste domande si potrà allora parlare di piano finanziario e di piano economico in cui rientrerà anche la gestione, indipendentemente da chi verrà operata. Che ci siano dei costi per avere acqua sana è indubbio. Che l’acqua sia un business e per chi, dipende dai criteri che vengono messi in atto.
Tra questi, a mio parere, trovo deplorevole dal punto di vista morale, ma anche insensata l’introduzione di criteri di libero mercato con la ovvia e pericolosa conseguenza della mercificazione dell’acqua. I primi chiari segnali di questo orientamento sono emersi nel dibattito internazionale passando l’acqua da “diritto fondamentale” a “bisogno vitale” (Conferenza ONU, Dichiarazione di Dublino, 1992; IIWWF, l’Aja, 2000). La differenza non è solo terminologica. Il diritto all’acqua comporta per lo Stato e le sue istituzioni l’obbligo di creare le condizioni necessarie (anche dal punto di vista finanziario e gestionale) affinché tutti i membri della comunità abbiano accesso alla risorsa nella quantità e nella qualità sufficiente alla vita. Nel caso del bisogno, invece, l’accesso all’acqua nasce dall’iniziativa di ciascun individuo la cui capacità di soddisfare il bisogno è condizionata dalla sua capacità d’acquisto.
In coerenza con tale concetto, l’acqua diviene quindi un “bene economico” (e non solo un “bene sociale”), il cui valore deve essere determinato sulla base del “giusto prezzo”, fissato del mercato nell’ambito della libera concorrenza internazionale, secondo il principio del recupero del costo totale (vertice di Cancun, 2003).
Ed è proprio per questo che le più dure contestazioni cui è andato incontro il Forum del WWC di Messico hanno mirato all’ottenimento della fuoriuscita dell’acqua dai trattati commerciali ed è sempre per questo, a fronte della pressante richiesta di un cambiamento di strategia, che a Mexico City gli organizzatori del World Water Forum hanno proposto di parlare di sfida globale da cogliersi mediante azioni locali. In altri termini, di superare il rapporto tra stati (e tra aziende e stati) per creare rapporti tra comunità locali (e tra aziende e comunità locali).
Rimane un fatto oggettivo: questi discorsi arricchiscono il dibattito intellettuale in modo costruttivo e trovano applicazione quando il cittadino, in un regime democratico e per tramite dei propri rappresentanti, ha degli strumenti “politico-sociali” per partecipare alle scelte che lo riguardano. Nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo queste condizioni non sono verificate. Sono quindi due, credo, gli approcci che vanno delineati: uno per i paesi “industrializzati” e l’altro per i paesi “in via di sviluppo” ed anche nell’ambito di queste macrocategorie andrebbero fatti dei distinguo.
Nel primo caso credo che, nonostante alcune esperienze dimostrino il contrario, l’applicazione di criteri economici (e nell’applicazione eventualmente la privatizzazione) rimanga uno strumento valido per garantire un’efficiente gestione delle acque, a condizione che essa avvenga secondo modalità e principi che garantiscano l’utente finale nei suoi diritti e necessità. Il modello PPP (partenariato pubblico-privato), basato sulla distinzione tra governo dell’acqua (di competenza dello Stato) e la sua gestione (di competenza di società private, magari partecipate da enti pubblici), delineato dalla World Bank, nonostante la sua posizione sia condizionata dalle potenti lobby delle imprese del settore idrico, costituisce un buon punto di partenza che, con le opportune correzioni, penso potrà garantire da un lato il diritto d’accesso all’acqua, dall’altro una gestione efficiente della risorsa. Sarà però necessaria a monte una effettiva e rigorosa azione da parte degli Stati nazionali. Per tale motivo – ritengo – che questo modello potrà funzionare solo nei Paesi più industrializzati, dove lo Stato è più efficiente e democratico, e dunque potrà orientare e regolare, nell’interesse della collettività, il processo di privatizzazione fissando limiti, controlli, re-investimenti di parte del capitale e standard ambientali sostenibili a tutte le imprese private che vogliano operare in questo settore. A queste ultime deve essere demandata la sola attività di produzione o di gestione dell’acqua, secondo i principi del “full cost recovery” cioè garantendo la remunerazione del capitale impiegato ed una conseguente migliore efficienza nello sfruttamento della risorsa acqua.
Nei Paesi del Terzo Mondo questo modello non credo fornirà la soluzione di garantire l’accesso all’acqua alle popolazioni a meno che i governi locali siano in grado di garantire gli interessi collettivi. Le ragioni sono:
– di ordine politico-sociale. Instabilità istituzionale, governi non democratici, inefficienza degli apparti statali sono tutti fattori che impedirebbero una rigorosa azione di controllo e di regolamentazione e faciliterebbero i fenomeni di corruzione e concussione.
– di ordine economico. Le imprese di distribuzione perché il loro interevento abbia un valore sociale, e contribuisca alla soluzione del problema idrico mondiale devono portare l’acqua dove non c’è, ovvero nelle zone rurali. Nelle zone rurali è un dato di fatto che la popolazione necessita di soluzioni tecnologiche che siano poco costose.
Come conciliare quindi le istanze della popolazione con quelle del settore privato, che legittimamente ragiona in termini di reddito e profitto? Risulta evidente che gli sforzi di investimento delle grandi aziende saranno preferibilmente concentrati in aree urbane e sub-urbane dove è previsto un utile maggiore. Inoltre, per recuperare gli investimenti per nuove infrastrutture (spesso inesistenti) e i costi di gestione e produrre utili, fissano dei prezzi che in questi Paesi è insostenibile per larghissime fasce della popolazione.
Nasce dunque l’esigenza di delineare per queste regioni che hanno situazioni economiche, sociali, politiche e culturali particolari, un modello di governo delle risorse idriche diverso dalla privatizzazione, sia pur di natura economica.
Probabilmente l’unica soluzione è nel lungo periodo, attuando principi di cooperazione solidale che va dagli investimenti a fondo perduto, alla formazione di individui locali in grado di assumere la gestione di sistemi complessi, alle politiche internazionali capaci di favorire le attività dei gestori locali se minacciati da politiche interne dei loro governi che non favoriscano le politiche sociali e il “bene” della collettività.
Appare altresì necessario che qualsiasi progetto di cooperazione sia permeato di elementi che riflettano la nostra concezione di uomo, quali: giustizia, solidarietà, sviluppo e benessere. In questi elementi rientrano le politiche sociali, l’informazione, la partecipazione, la conoscenza. Questi fattori, se assenti, sono concausa di sottosviluppo e contribuiscono con altrettanta efficacia alla scarsità o per contro alle alluvioni. Ciò induce a ritenere che taluni interventi, che prescindono dalla dimensione dell’individuo
e dalla sua quotidianità, rischiano di essere di per se inefficaci.
Sicuramente in buona parte i problemi del terzo mondo sono dei problemi di ordine culturale. In un mondo globalizzato, estremamente competitivo e rapido, divengono vittime del progresso quelle frange di popolazione che per necessità si concentrano in particolari aree del mondo dove subiscono il fascino di modelli di sviluppo che sono in grado di recepire solo marginalmente e comunque non in grado di sostenere per goderne.
Col tempo e il progredire delle tecniche e delle dinamiche mondiali il divario, già enorme, tra mondo ricco e mondo povero sarà sempre più forte.
De facto i modelli imperanti sono occidentali, l’imprimere una svolta significa contribuire ad una partecipazione dei paesi non occidentali. Ciò richiede innanzitutto formazione ed educazione e soprattutto un orizzonte temporale sufficiente perché il processo di rielaborazione delle esperienze di cui siamo portatori si manifesti in nuove dinamiche mondiali. Richiede altresì l’acquisizione a priori, da parte dei portatori di aiuto, della gerarchia di valori di cui sopra. Per contro, i medesimi valori devono essere recepiti con altrettanta volontà e determinazione da parte dei governi beneficiari.
L’acqua è un diritto vitale fondamentale degli esseri umani, è altresì un elemento di salute, di equilibrio ambientale, di sviluppo socio-politico-economico irrinunciabile. Per tali motivi, qualsiasi intervento venga operato nel settore dell’acqua non può prescindere da valori etico-morali fondamentali.

di Rossella Monti*

*Direttore HYDROAID Water for Development Management Institute, rossella.monti@hydroaid.it.

(1) Nel 1995 la Banca Mondiale lanciò l’allarme affermando che 80 paesi, equivalenti al 40% della popolazione mondiale si trovano in condizione di penuria d’acqua, ovverosia con meno di 1000 m3 d’acqua per abitante all’anno, e il 50% della popolazione mondiale (circa 3 miliardi di individui) non dispone di adeguati sistemi di depurazione idrica e non ha accesso all’acqua potabile. Come conseguenza di ciò, la mortalità legata alle epidemie e ai contagi causati dall’inquinamento delle acque ammonta, secondo l’OMS, a circa 30 milioni di persone all’anno.

ACQUA E INGEGNERIA

È sempre più diffusa nella comunità scientifica, come pure nel mondo delle professioni, nella società e nelle istituzioni, la resistenza a riconoscere le discipline idrauliche dentro la sintesi espressiva di Scienza e tecnica dell’ingegneria delle acque, un’espressione culturale, questa, non propriamente accademica.
Ciò appare ancora più sconcertante, se delle discipline idrauliche ripercorriamo la lunga e controversa evoluzione storica, a partire dall’idraulica più antica. Le opere idrauliche di una storia più che millenaria e le tecniche che fin dai tempi più remoti l’uomo ha avuto bisogno di sviluppare per assicurare la sua vita e la sopravvivenza, ma anche per migliorare le condizioni materiali e il proprio benessere, sono tutte a dimostrare che l’idraulica, prima ancora che una scienza è stata una tecnica, un’arte, una creazione della mente. La pura e sola logica, senza l’intuizione e l’immaginazione, può soltanto essere un muoversi alla cieca, senza vedere in prospettiva, senza guardare lontano. Che piaccia o no, consapevolmente o meno, esiste tra l’ingegnere idraulico e il poeta un comune sistema di pensiero, che non può che servire alla scienza e al suo progresso. Si pensi all’ingegnere idraulico quando vede l’arpa di Nikuradse nel diagramma delle perdite di carico o quando immagina il morning glory nel pozzo di scarico di superficie di un invaso. Non è, questo, un concetto nuovo, se già nel 1962 Bernard Le Méhauté in “Phylosophy of hydraulics”, scriveva sul “Journal of the Hydraulic division”: Pure logic alone, without intuition and imagination, can only be blundering. Whether he likes it or not, whether he is conscious of it or not, there exists between the hydraulic engineer and the poet a communion of thoughts, which cannot but serve science. It is for this reason that the hydraulic engineer sees a “harp of Nikuradse” in the diagram of head loss coefficient for a pipe, and a shaft spillway brings to mind the “morning glory”. Sometimes, the hydraulic engineer even prides himself on poetry and literature. E, aggiungiamo, l’immaginazione, legittima quanto la logica, è ancora oggi il vero terreno fertile per la germinazione scientifica in ogni campo dell’ingegneria.
È stato il dominio del bisogno a guidare l’immaginazione e l’esperienza umana nei millenni, sollecitando la conoscenza: assicurarsi almeno qualche litro di acqua al giorno, pur non vivendo in riva a un fiume; proteggersi contro le alluvioni; lavorare il suolo per la sua sussistenza; imparare a usare l’acqua, temerla, conoscerla; realizzare opere d’arte idrauliche sempre più grandi e sofisticate. È nato così il primo pozzo, il primo ramo di condotta. Forse un giorno l’archeologia ci consegnerà il primo pozzo, il primo ramo di tubatura, la prima difesa: oggi sappiamo che fin dalle prime epoche del suo soggiorno sulla terra, l’uomo sapeva costruire e usare tali opere. Fatti conosciuti ci rivelano le capacità inventive e operative dell’uomo nell’antichità: una rassegna sintetica delle applicazioni della tecnica idraulica che l’uomo, dai tempi più remoti, ha sviluppato per far fronte ai suoi bisogni, fu presentata alcuni anni fa da Jacques Bonnin, in un articolo su “Idrotecnica” dal titolo “Alcuni aspetti dell’idraulica nell’antichità”.
I realizzatori di certe opere e manufatti hanno intuito, prima ancora di scoprire, i principi fondamentali dell’idraulica.
Così è stato con pozze, fosse e rigagnoli, così è stato con l’irrigazione artificiale per i cacciatori-raccoglitori, all’esordio delle civiltà: acqua per far crescere le colture, prima ancora che per alimentare le case, per le quali bastavano davvero pochi secchi. Lo sviluppo delle pratiche di vita neolitica fu un processo su grande scala di trasformazione e sfruttamento a scopo produttivo dello spazio territoriale e contraddistinse l’azione dei coltivatori-allevatori. Il passaggio dalla vita nomade a quella sedentaria, la diffusione su pianure coltivate, l’esplosione demografica, furono le qualità specifiche di questa formazione sociale e – diremo insieme a Guelfo Pulci Doria, nella relazione generale al 28° Convegno di Idraulica e Costruzioni idrauliche – caratterizzarono il paradigma generale del neolitico, quello di un’esistenza basata sull’organizzazione consapevole e razionale della produzione dei mezzi di sussistenza, l’agricoltura e la pastorizia. Si determinò un mutamento epocale del modo di porsi dell’uomo di fronte alla natura e il rapporto di rapina si trasformò in un rapporto di collaborazione, in cui ebbero molta importanza le conoscenze e le tecniche dell’idraulica. Si susseguirono così sei fasi, a cui l’idraulica dovette rapportarsi creativamente con i suoi contributi: la coltivazione nomade; l’irrigazione per inondazione; l’orticoltura a giardini; i villaggi con fossati; l’espansione urbana; le oasi e le città carovaniere. E, con la tecnica, cresceva anche la conoscenza, il sapere esperto.
Vennero anche le prime dighe, gli sbarramenti: opere per imbrigliare un corso d’acqua, per costituire serbatoi. Le prime dighe possono essere state piccole e non avere lasciato tracce, prima del quarto millennio, in Mesopotamia e in Egitto, ma poi ne furono erette altre, in muratura e in terra, nel mondo occidentale e in Cina, India, Pakistan. Man mano che l’esperienza si rafforzava, anche le tecnologie miglioravano, si perfezionavano le realizzazioni, si costruiva il sapere scientifico mattone su mattone. Oltre gli invasi, si costruirono via via opere d’adduzione, reti di distribuzione, fognature, canali con pendenze regolari su diverse decine di chilometri, gallerie per portare l’acqua sotto il suolo, condotte di piombo, condotte in carico, di pietra o di legno, di terracotta o di metallo, utilizzate per alimentare sotto pressione città poste sulla cima di un monte. Presso i Cretesi e i Greci, o costruite dagli Etruschi e, più tardi, dai Romani, troviamo una quantità di tubature, bacini di ripartizione e di sedimentazione, che costituirono anche l’occasione di definire disposizioni e norme per l’uso dell’acqua. Acque sotterranee, usate per migliorarne qualità e quantità con finezza d’ingegno e grande perseveranza: l’uso dei pozzi è usuale fin dal terzo millennio e probabilmente è anche più antico. Da lavoratori esperti, i muqannι – , con l’appoggio di forza lavoro semplice, furono eseguiti canali nella vena freatica, fin dal secondo millennio, i qanaˇt arabi e i kariz persiani, canalicoli sotterranei di lieve pendenza scavati nella falda freatica, che collegavano una serie di cunicoli verticali simili a pozzi: un sistema di trasporto dell’acqua usato per fornire una fonte affidabile di approvvigionamento idrico per gli insediamenti umani e per l’irrigazione, in climi caldi e ambienti aridi del Medio Oriente. E poi vennero ancora lavori di idraulica fluviale, per proteggere le terre contro le alluvioni e rendere i fiumi navigabili: canali di derivazione per rendere possibile la navigazione. Canali di congiunzione, scavati o solo intrapresi, furono canali di congiunzione fra due mari: il primo canale dal mare Mediterraneo al mare Rosso fu iniziato nel ventesimo secolo prima di Cristo e compiuto solo molto tempo dopo, con alterno interesse da parte di faraoni, imperatori, sovrani e re. Sui corsi d’acqua si costruirono anche le chiuse, principalmente in Cina, prima e durante i regni della dinastia degli Han, chiuse di ogni genere, per interrompere o regolare il deflusso e consentire il passaggio di barche.
Si rompevano via via le credenze nei magici influssi divini sulla vita dell’uomo. Persino Tiresia, indovino a Delfi, diagnosticò la mancanza di una fognatura per porre fine alla peste a Tebe: con mirabile ironia, Friedrich Dürrenmatt smonta i mostri sacri della mitologia greca, nel divertente racconto “La morte della Pizia”, Adelphi 1976. Non più riti propiziatori. E così la conoscenza dell’idraulica ha dato a governanti ed a dominatori un vantaggio indubitabile, un potere incontrovertibile. Potremmo aggiungere molti altri esempi: i canali per rifornire gli eserciti, i passaggi a guado, i canali per alimentare la città e limitare le pretese dei conquistatori. Anche i sistemi di misura per permettere il controllo dei fenomeni e per garantire la gestione delle acque servirono a governare o dominare. Di oltre cinquemila anni fa, troviamo misure per le variazioni stagionali e anche giornaliere del livello dei fiumi, per esempio sul Nilo: anche grazie ai “nilometri”, fu possibile consolidare il dominio da parte dei faraoni. Sistemi grossolani, ma efficaci, erano quelli prevalenti, di fronte alla lentezza con cui progrediva la conoscenza. Ad esempio la stima della portata degli acquedotti: fino a Vitruvio incluso, gli ingegneri romani non sapevano stimare la portata degli acquedotti se non misurando la sezione trasversale, trascurando pure la velocità. Così le prime macchine idrauliche furono costruite senza utilizzare il metallo, raro e caro: fatte di legno, hanno lasciato a testimonianza pochi ruderi. Le più antiche, fin dal quinto o quarto secolo, furono usate in Egitto e in Cina per rilevare l’acqua. Poi ruote idrauliche, norie, catene a cassetti. In Siria, sull’Euronte, ci sono tuttora norie in funzione, il cui cigolio rappresenta il respiro costante della città di Hamah. Pochi secoli prima di Cristo, le norie hanno suscitato l’idea di costruire ruote motrici, precursori delle moderne turbine. Per mancanza di conoscenze teoriche e di una tecnologia sufficiente, non potevano essere prodotte, duemila anni fa, le moderne macchine che funzionano in carico: soltanto pochi secoli fa sopravvenne l’unica grande invenzione dell’era attuale.
Nella storia, accade spesso che il dominio della tecnologia soffochi la scienza, interrompa la sua strada, impedisca l’affermazione della sua identità. E accade tutte le volte che di tecnologia si serva il potere dominante, l’economia, il mercato, mentre la scienza e la sua crescita restano virtualmente le uniche risorse al servizio del progresso dei popoli, per la fuoriuscita dalla subalternità. Oggi, e almeno dagli anni novanta del ventesimo secolo, gran parte dello sviluppo tecnologico ha ormai poco a che fare con il bene sociale, quando la tecnologia è indirizzata a trovare sbocchi alla sovrapproduzione di un sistema industriale e finanziario che si mostra sempre più anacronistico. La comunità scientifica non può comportarsi come un’elite più o meno segreta, una parte funzionale ed espressione diretta dei decisori. La libertà sociale e intellettuale della scienza è messa a repentaglio dalle priorità di ricerca dettate dalla produzione. Troppo spesso i finanziamenti alla ricerca sono assegnati a comparti e temi che giovano a un’idea discutibile di sviluppo economico, quella che promuove il virtuale, il superfluo, il militare, a spese del sociale e della conservazione ecologica.
È quanto accaduto anche con l’impero romano. Scomparve la scienza ellenistica, a poco a poco dimenticata sotto l’impatto della Roma tecnologica. Ci sono testimonianze dell’esistenza di una scienza, correttamente chiamata moderna, già nel mondo ellenistico, ed è questa la ricostruzione che fa Lucio Russo, in “La rivoluzione dimenticata”, Feltrinelli 1996. Ci fu uno iato, durato più di quindici secoli, in cui si esercitò talmente poco l’attività umana chiamata “scienza” da suscitare la convinzione che essa non fosse mai esistita prima. A partire dal rinascimento, gli stessi pionieri della scienza moderna, da Leonardo a Galilei, da Newton a Darwin conobbero e apprezzarono la scienza ellenistica, presumendo di esserne gli eredi, perciò impegnati nell’estenderla. Allo stesso modo anche oggi la scienza rischia di perdere la propria identità, sotto la spinta di un occidente ossessionato da tecnologia e guerra, in risposta alla paura, che si diffonde vertiginosamente.
Oggi nulla è dato per scontato su cosa accadrà in un prossimo futuro, ma resta in noi la preoccupazione che la perdita di identità della scienza possa costituire la versione moderna di quanto nella storia è accaduto alla scienza ellenistica.
L’ingegneria idraulica romana nasce nella Roma dei Tarquini, tra il settimo e il sesto secolo prima di Cristo. Nella florida città fluviale nascono i canali di drenaggio, una tecnica derivata dagli Etruschi, e ai tempi degli ultimi re di Roma fu costruita la Cloaca Massima, tra le prime grandi opere di urbanizzazione, una delle più antiche condotte fognarie, realizzata usufruendo dell’esperienza sviluppata dall’ingegneria etrusca. La tecnica degli acquedotti si sviluppa con i Romani: in quattro secoli, tra il 312 avanti e il 52 dopo Cristo, nascono nove acquedotti, altri due nei secoli immediatamente successivi. Interessanti i manufatti degli acquedotti romani: gallerie aereate, tratti a sifone – i più in terracotta, pochi in piombo – poi castelli idraulici di ripartizione (ad esempio il castellum o caput aquae dell’acquedotto di Lione, un serbatoio da cui si dipartono nove condotte; oppure il Serbatoio delle Sette Sale, una grande cisterna, costituita da sette vasche di ripartizione, necessaria alle terme di Traiano). Ma prima c’erano state le piscine, una in testa l’altra in coda all’acquedotto, con finalità di sedimentazione del limo. Acquedotti, terme, ponti sul fiume, mulini nel corso d’acqua, caratterizzavano nel 1500 il paesaggio di Roma, città d’acqua. I mulini furono distrutti tutti, travolti da una piena negli anni settanta del diciannovesimo secolo. Intasarono i ponti sul fiume e non furono più ricostruiti. Vennero le sistemazioni del Tevere, per difendere Roma dalle alluvioni. Interventi come drizzagni, serbatoi di laminazione, sistemazioni di sponda con gabbioni alla rinfusa, palificate, ecc. caratterizzavano l’idraulica fluviale a Roma. Solo nel 1985 si conclude la bonifica del territorio romano, con drenaggio delle acque a mare.
Ed è ancora Bonnin, già citato, a rilevare che nella storia dell’evoluzione della conoscenza scientifica, con grande difficoltà furono avanzate teorie innovative. Tardivi e inesatti furono i frammenti di teoria relativi alla meccanica dei fluidi e all’idrologia, teorie che non furono sempre utilizzate in caso di bisogno. Negli ultimi secoli avanti Cristo, i filosofi greci hanno dato conclusioni stravaganti circa le origini di grandi fiumi o le cause delle loro alluvioni. Il concetto di ciclo idrologico, apparve in Cina verso il decimo o nono secolo prima di Cristo, e fu principalmente sviluppato in Grecia da Talete, Senofane, Aristotile, fin dal settimo secolo. Si riconosce in Archimede il fondatore dell’idrostatica, ma i concetti fondamentali della statica dei fluidi si sono sviluppati assai lentamente, su un arco temporale tanto lungo che va almeno da Archimede a Pascal. Tali concetti sono stati in origine sviluppati in assenza di algoritmi matematici, col solo soccorso dell’intuizione e del ragionamento logico: particolarmente notevoli sono in questo senso le opere di Torricelli. Oggi sappiamo che un’eccezione venne nel primo secolo avanti Cristo da Tito Lucrezio Caro, che espose il principio di continuità, già presentato in una forma diversa, più di un secolo prima, da Erone, considerato il più grande ingegnere meccanico dell’antichità.
Sappiamo che una delle prime profonde intuizioni di idrodinamica è quella contenuta in un passo del “De Rerum Natura”, dove vi si realizza quella felice sintesi delle due culture, l’umanistica e la scientifica, auspicata ma assai raramente raggiunta. Antichità, contesto culturale in favore dell’ipotesi democritea di atomicità della materia, profondità dell’intuizione, assenza di apparati analitico-matematici, perfezione ed eleganza formale la caratterizzano: così “Su un passo di T. Lucrezio Caro attinente all’idrodinamica” si espresse Michele Fanelli in “Idrotecnica” nell’80. Nel passo era riportata l’intuizione cinematica del moto causato da un ostacolo solido che si sposti in un fluido incomprimibile. Col solo sussidio dell’immaginazione, Lucrezio rappresentò correttamente i caratteri qualitativi di un moto a potenziale di fluido incomprimibile: ricorre all’immagine di un pesce nell’acqua e osserva che sarebbe geometricamente possibile un moto con comprimibilità nulla, poiché all’avanzare della parte anteriore del pesce, ostacolo solido anch’esso incomprimibile, viene da essa occupato un volume esattamente uguale a quello lasciato libero dalla parte posteriore.
Anche a voler restringere la riflessione storica ad una fase più vicina ai nostri tempi – come fa Kenneth Keniston in “Leggere, contare e conoscere il mondo. La formazione degli ingegneri”, Technology Review 1997 – la stessa prima rivoluzione industriale, cioè la rivoluzione nella produzione di beni che ebbe inizio nel diciassettesimo e diciottesimo secolo e che nel diciannovesimo decollò con uno straordinario sviluppo delle industrie tessili, metallurgiche, ma anche dei trasporti e di altri settori, non fu la creazione di un’ingegneria basata sulla scienza, ma piuttosto il frutto del lavoro di dilettanti intuitivi e di artigiani dotati, se non proprio di arruffoni pieni di inventiva. Lo stesso fa Bernard Le Méhauté, nell’opera citata, quando sottolinea il contributo necessario dell’intuizione nel lavoro dell’ingegnere idraulico: The hydraulic engineer is logical in the statement of his ideas only after being intuitive in his discoveries. È pur vero che ci fu la concomitanza dello sviluppo della scienza, e specialmente il razionalismo scientifico e l’idea di progresso, a permettere quel clima fertile in cui la prima rivoluzione industriale poté manifestarsi; ma i primi canali, le prime fabbriche, le ferrovie, le acciaierie, i filatoi e i telai a motore non furono il risultato dell’applicazione sistematica dei principi scientifici da parte degli ingegneri. Tutto questo fu piuttosto dovuto all’inventiva e all’immaginazione di persone la cui formazione scientifica era generalmente approssimativa. I primi canali americani non furono costruiti da persone simili ai moderni ingegneri idraulici, formati su basi scientifiche, ma piuttosto da dilettanti entusiasti, artigiani ingegnosi e imprenditori tenaci. La maggior parte dei canali presentava grosse falle: accadde persino che un canale del diciannovesimo secolo, alla fine della sua realizzazione manifestasse un errore di due metri di dislivello alla congiunzione delle estremità dei due tronchi in via di costruzione. La scienza di base, se pur esisteva, non stava nelle menti degli ingegneri, ma altrove, principalmente nelle accademie urbane e in poche università, ed era più che altro un passatempo per aristocratici e persone abbienti. Fu solo verso la fine del diciannovesimo secolo, quando la spinta della prima rivoluzione industriale era diventata inarrestabile, che si fece gradatamente strada l’idea della posizione centrale della moderna ingegneria e venne avviata la seconda rivoluzione industriale. Fu allora che cominciò ad apparire, dapprima nell’industria elettrica britannica, in Italia e negli stati Uniti nei settori delle comunicazioni e della metallurgia, una nuova figura professionale, il precursore del moderno ingegnere. Sempre più venivano considerati ingegneri i cultori di una nuova professione, cioè coloro che avevano studiato i principi matematici e scientifici fondamentali, essenziali per le scienze applicate e pratiche.
Si specializzavano nei servizi pubblici e lavoravano come costruttori di ponti e strade, metallurgisti, ingegneri chimici, ingegneri elettrici o meccanici basandosi sulla conoscenza delle nozioni scientifiche più precise e più utili esistenti in quel momento. Fu con la creazione di questa nuova professione, e sulla base dell’idea radicale che ne aveva determinato la comparsa, che la spinta della prima rivoluzione industriale diede impulso alla seconda, il cui impeto ha guidato la trasformazione del mondo conosciuto fino ai nostri giorni. Fu allora che nacque l’attuale moderno ingegnere.
Ed è così che oggi l’idraulica non può più fare a meno della scienza, dei risultati numerici provenienti dai modelli matematici più avanzati, della sperimentazione su modelli fisici. L’idraulica applicata, le costruzioni idrauliche, l’idrologia non hanno più bisogno soltanto di sviluppi tecnologici, richiedono prima di tutto più conoscenza teorica, pretendono fondamento scientifico, soluzioni numeriche. Non si tratta soltanto di trovare la soluzione di problemi correnti, ma soprattutto di porre le basi per i più importanti processi di trasformazione della civiltà. E di tenere ben presente che l’innovazione tecnologica, che un tempo era considerata come il mezzo verso una vita migliore, non può diventare la principale causa di un esteso degrado ambientale.
In Scienza e tecnica dell’ingegneria delle acque, dunque, capacità di immaginazione e obiettività scientifica: questa è la sintesi dell’ingegnere idraulico, un’associazione di creativa dote intuitiva e rigorosa forza razionale. Di certo, la sua innata intuizione, alimentata dallo studio, sviluppa la sua logica induttiva, molto vicina a quella esprit de finesse che è essenziale ad esprimere matematicamente il problema in studio e ad estrarre i fenomeni essenziali dal disordine apparente.
Senza la logica induttiva, Prandtl e von Kàrmàn non ci avrebbero mai dato una teoria della turbolenza. Una volta che sono stabilite con valida approssimazione modellistica le equazioni che esprimono il suo problema, l’ingegnere idraulico ha da risolverle. E questo vien fatto dalla logica deduttiva, niente più che l’esprit de géometrie. Quindi l’idraulica congiunge “l’esprit de finesse” con “l’esprit de géometrie”, troppo spesso ritenute opposte da chi fraintende il reale pensiero di Pascal.
Immaginazione scientifica, linguaggio logico e struttura matematica convergono nell’ingegneria delle acque. È da questo processo del pensiero che sono stabilite le teorie. Le soluzioni matematiche sono ottenute applicando i metodi matematici alle equazioni basate su concetti fisici: il principio di continuità che esprime la conservazione della materia, l’equazione della quantità di moto che esprime la conservazione dell’energia, le condizioni al contorno. Talvolta è necessario semplificare intuitivamente queste equazioni fondamentali per ottenere una soluzione matematica. Queste congetture matematiche, se verificate successivamente dagli esperimenti, sono di molto più effetto che le pure profezie analitiche.
Infine l’ingegnere idraulico determina soluzioni fisiche, la cui accuratezza può essere verificata sperimentalmente per alcuni semplici casi particolari e così la conoscenza può essere ottenuta del limite di validità delle assunzioni originali, sulle quali si basavano le soluzioni generali.
L’interesse scientifico e tecnico dell’ingegnere idraulico si sviluppa così dentro la “geoidrosfera”, dove si manifestano le interazioni delle opere con l’ambiente e i processi ambientali, emissioni, cambiamenti climatici, valutazioni ambientali.
Da almeno tre generazioni, tutti quei vincoli che l’ingegnere delle acque poteva un tempo tranquillamente trascurare, sono entrati a far parte della sua attività e della sua formazione. Fattori una volta ritenuti esterni, impatti ambientali, problemi di sicurezza, livelli di emissione in atmosfera, rischio di inquinamento, compatibilità energetiche, effetti delle opere a livello globale, sono diventati parti integranti della progettazione ingegneristica. Fondamentali sono a tal proposito i contributi delle geoscienze, l’ambito dentro cui l’idraulica moderna si colloca, le aree della scienza della terra e dello spazio, dove ha luogo lo studio di tsunamis, atmospheric dust storms, climate change, drought, flood, typhoons, monsoons, space weather, planetary exploration. Qui ritroviamo le nuove frontiere della scienza idraulica: ritroviamo la turbolenza e il caos, ci imbattiamo nella complessità, sperimentiamo l’approccio entropico, utilizziamo la lettura dei frattali, quella della reti. Ma poi è dentro il bacino idrografico che si esplicano oggi le competenze di ingegneria e ricerca idraulica.
Territorio, fiumi, città. Qui mettiamo in relazione, intersecandole, le tre acque: quelle da cui difendersi, quelle da utilizzare, quelle da tutelare nella qualità e proteggere dall’inquinamento. Perciò occorre ripartire dai fiumi, dalle loro differenti morfologie, dalle loro instabilità idrodinamiche, dal loro habitat ecologico, dal loro impatto sul territorio: sarà questa la vera rivoluzione paradigmatica di cui c’è bisogno, un nuovo paradigma scientifico-tecnologico ed economicosociale.
E qui potrà tornare utile un catalogo di morfologie idrodinamiche che distingua i corsi d’acqua e ne distingua i processi, senza incorrere in anguste classificazioni e banali generalizzazioni. Qui si sviluppano i legami con altre discipline e altre scienze. Se ancora inadeguata è la partecipazione italiana all’integrazione europea in materia d’acqua, è perché nei programmi-quadro si rileva una forte necessità di gruppi interdisciplinari costituiti da meteorologi, climatologi, fisici atmosferici, statistici, esperti di rischio, sociologi, urbanisti, antropologi che affiancano gli ingegneri idraulici, gli ingegneri sanitari, gli idraulici agrari, i geologi. Interdisciplinarietà che, pur essendo la chiave di volta per affrontare le complessità, stenta ad affermarsi compiutamente, dentro i nostri confini.
La tecnica idraulica si diffonde nella pianificazione dei bacini idrografici e nella gestione dei distretti idrografici: opere sì, ma non solo; costruzioni sì, ma non solo. Deve diventare chiaro ormai che anche il piano di difesa dalle inondazioni è opera di ingegneria: piano di fattibilità, di progettazione di massima, programma esecutivo, piano gestionale. Non può più valere l’identificazione di acqua con le sole opere di ingegneria idraulica. Lo sviluppo armonico e sostenibile di un paese presuppone un saggio concerto di grandi opere, infrastrutture civili, costruzioni idrauliche, piccoli manufatti. E, insieme a queste, l’apertura di cantieri per la difesa del suolo e la valorizzazione del territorio. Nella gestione delle risorse idriche e nella pianificazione dei bacini idrografici, in quell’attività che chiameremo “water management and watershed planning”, l’acqua è da considerarsi come bene comune. E non va trascurato, inoltre, il rapporto stringente che esiste tra l’energia e l’acqua. Le emergenze e le calamità mettono in crisi la pianificazione e la programmazione degli interventi in situazioni ordinarie: di qui la necessità di un rapporto inter-retroattivo dell’autorità di bacino con quella di protezione civile.
Il principio di responsabilità: quante volte l’ingegneria idraulica è stata chiamata, e continua ad esserlo, ad intervenire per risolvere problemi creati da una non felice pianificazione territoriale o da un’economia deleteria e aggressiva. È dalla fine della seconda guerra mondiale che molti paesi si sono sempre più orientati ad ottenere spazi e a sfruttare risorse, così da avere trasformato irreversibilmente il loro territorio, accrescendo frequenza e pericolosità di eventi intensi e catastrofi naturali. La scienza non può essere un accessorio del modello prevalente di sviluppo economico. Tanto meno la scienza idraulica. Per funzionare, un modello economico non può che avvalersi di saperi, conoscenza di problematiche specifiche e di compatibilità settoriali. In una società libera, la scienza prospetta, ed è poi la sfera politica che decide, sancisce, sceglie tra scenari, seleziona tra gradi di rischio, confronta tra diverse evenienze possibili. È la politica, l’insieme dei decisori, a comprendere in una visione integrata il complesso delle conseguenze di scoperte e innovazioni tecniche. E ancor più decisivo si rivela il ruolo politico, se si tiene conto che fin dal principio di indeterminazione di Heisenberg l’uomo ha dovuto necessariamente abbandonare l’approccio di un sapere consolatorio perché deterministico e, con questo, anche qualunque enfasi positivistica. In presenza di condizioni climatiche particolari, con il pianeta in balia di eventi catastrofici sempre più frequenti, con il diffondersi dovunque dell’occupazione e gestione del territorio da parte dell’uomo su basi poco coerenti tanto con la fisica del contesto quanto con l’organicità e la funzionalità di una crescita responsabile, non è certo casuale che si abbandoni ogni opzione previsionale e preventiva, né che si occupino i territori con sistematica esponenziale pervicacia, o che venga elusa l’infrastrutturazione ingegneristica più urgente, quella consistente nella messa in sicurezza del territorio attraverso interventi pianificatori snelli ma soprattutto rispettosi dei limiti idrogeologici, non è casuale infine che beni insostituibili, perché vitali, vengano ridotti al rango di merce ad alto valore aggiunto.
Non è certamente un caso perché il dubbio, se non la ragionevole certezza, che è necessario sottoscrivere un patto di collaborazione fra saperi e politica, può avanzarlo chi del dubbio ha fatto il suo logo epistemologico e professionale, chi contribuisce alla ricerca di nuovi paradigmi e nuove verità, per vocazione o per professione. Con Karl Popper: l’uomo è consapevole di non poter raggiungere la verità, ma è parimenti certo che deve cercarla fino in fondo.

di Vito A. Copertino e Massimo Veltri*

*V. A. Copertino, DIFA, Università degli Studi della Basilicata; M. Veltri, Presidente dell’Associazione Idrotecnica Italiana.

RISOLUZIONE FINALE DEL CONVEGNO
GIORNATA DELL’ACQUA – FRANE E DISSESTO IDROGEOLOGICO : CONSUNTIVO
Accademia Nazionale dei Lincei – Roma (22 marzo 2010)

Per la mitigazione del rischio idrogeologico e per i problemi della difesa del suolo è determinante il ruolo della conoscenza e della ricerca scientifica fondata sullo studio e l’osservazione di fenomeni complessi per suggerire strumenti di intervento idonei.
È necessario recuperare lo spirito e l’essenza di strumenti preziosi quali sono stati il Gruppo Nazionale Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche e il Progetto Finalizzato Conservazione del Suolo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, in quanto espressioni di coordinamento e condivisione dei saperi, oltre che di consulenza e di stimolo per i decisori politici. Così da rilanciare e potenziare una nuova, non rinviabile attenzione per il suolo, l’acqua e la pianificazione territoriale.
L’assemblea auspica che l’Accademia dei Lincei insedi un Comitato che rappresenti al Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio i problemi delle sofferenze idrogeologiche del Paese con proposte di intervento efficaci nel breve-medio periodo.

Dopo Messina. Ancora sulle politiche di difesa del suolo e gestione del territorio

Il documento di Associazione Idrotecnica Italiana, Gruppo 183 e Gruppo Italiano di Idraulica sulle vicende che hanno interessato la difesa del suolo e la gestione del territorio dopo la catastrofe di Messina

….. leggi

Si riporta di seguito il testo inviato il 9 novembre dal Presidente Massimo Veltri al Corriere della Sera in risposta all’articolo di Dacia Maraini “Acqua privatizzata. I rischi di una scelta”


Gentilissima Signora
Dacia MARAINI

La grande stima che la Associazione Idrotecnica Italiana ha per Lei ci spinge a fare piccole precisazioni alla sua nota “Acqua privatizzata. I rischi di una scelta” (Corsera 3 novembre), per chiarire che la privatizzazione non  riguarda “l’acqua” (cioè la risorsa idrica e la sua difesa, valorizzazione, utilizzazione), ma il “Servizio Idrico Integrato”: la gestione, cioè, dei sistemi di acquedotto, fognatura, depurazione per soli usi civili, le cui infrastrutture devono comunque tornare agli enti locali alla scadenza (max 30 anni) della concessione del servizio a terzi. Delle tre forme di affidamento, tutte suscettibili di ottime o pessime applicazioni, ammesse dalla U.E. e dalla nostra preesistente normativa – società di capitali, società a capitale misto pubblico privato, società a capitale interamente pubblico poste sotto il controllo diretto dell’ente proprietario – viene praticamente esclusa la terza. Essa ricorda la formula “municipalizzazione” che ha dato eccellenti risultati (fintantoché le gestioni delle relative aziende speciali, prima affidate a direttori scelti per concorso, vennero di fatto impropriamente occupate). Inoltre, le nuove norme obbligano le preesistenti società ex municipali quotate in borsa a ridurre la quota pubblica dal 51% al 30%, pena la loro scadenza al 2012. Condividiamo i più ampi percorsi stabiliti dalla U.E., ma riteniamo che l’Italia non dovrebbe ignorare la gloriosa storia vissuta dalle proprie aziende ed operare per correggere le deformazioni prodotte da invasioni improprie.

Roma, 9 novembre 2009

On. Prof. Ing. Massimo Veltri
Presidente dell’Associazione Idrotecnica Italiana


Il testo sopra riportato è stato pubblicato sul Corriere della sera del 15 novembre, seguito dalla replica di Dacia Maraini

Il Gruppo 183 ha elaborato una nota critica, a cura di Bruno Miccio, sul futuro che si prospetta per i servizi idrici se verrà convertito in legge senza modifiche l’art. 15 del D.L. 135/2009.
L’Associazione Idrotecnica Italiana, ritenendo utile e costruttivo il confronto che scaturisce dal dibattito, pubblica tale documento invitando i lettori a commentarlo mandando un’email ad Questo indirizzo email è protetto dagli spambots.

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APPELLO PER UNA NUOVA POLITICA PER LA DIFESA DEL SUOLO E LA GESTIONE DEL TERRITORIO

Al Signor Presidente della Repubblica
Al Signor Presidente del Senato della Repubblica
Al Signor Presidente della Camera dei Deputati
Al Signor Presidente del Consiglio dei Ministri
Al Signor Ministro dell’Ambiente, del Territorio e del Tutela del Mare
Al Signor Presidente della Conferenza Stato-Regioni

Roma

 

  1. In ampie fasce del territorio di Messina, dopo piogge molto intense e contemporanee, numerose frane hanno scaricato immense colate di fango ed enormi massi, travolgendo gli abitati (costruiti anche sul greto dei corsi d’acqua) e seminando morte e distruzione.

Negli stessi luoghi, meno di due anni fa, il 25 ottobre 2007, si erano verificati eventi particolarmente gravosi. Dichiarato lo stato di emergenza, venivano previsti lavori per mettere in sicurezza la zona con un finanziamento di undici milioni di euro resi disponibili dalla Protezione civile. Ma gli interventi si sono finora limitati ad un terrazzamento.

Si tratta di una tragedia che ritorna con intensità e frequenza crescente, incurante di diagnosi e denunce ripetute e subito rimosse. Con la ripetizione dei drammi dei sopravvissuti, dei riti della partecipazione al dolore e delle dichiarazioni di impegno a cambiare. Continuano, tuttavia, l’estensione dell’abusivismo, la pressione dominante degli interessi fondiari e immobiliari, compresi quelli contigui all’illegalità e alle sue pratiche consolidate, nonché il perpetuarsi dei condoni edilizi, accolti con un consenso diffuso.

  1. Eppure il Paese, sia pure a seguito di disastri sempre meno “naturali”, ha alle spalle una ricca elaborazione culturale, scientifica e tecnica, e una intensa produzione progettuale e normativa nella difesa del suolo, nella tutela e gestione delle acque. Come è avvenuto con la riforma della legge 183/89 e nella intensa stagione di riforme legislative del decennio successivo, che anticipano diversi aspetti delle direttive europee in materia di acque, 2000/60, e di difesa dalle alluvioni, 2007/60. Altrettanto si può dire per quanto concerne il governo del territorio.

A questa ricca attività di riforma legislativa segue purtroppo una applicazione largamente elusiva e poco efficace e una perdurante ambiguità delle attribuzioni istituzionali centrali, regionali e locali. Con il conseguente aggravamento delle condizioni di incertezza, l’offuscamento della capacità di previsione, la caduta della tensione progettuale, il disincanto della partecipazione pubblica nei processi decisionali.

Parallelamente, diventa travolgente il ricorso alla “pratica dell’emergenza” e alla sua continua alimentazione. In particolare nel Mezzogiorno e in materia ambientale, col commissariamento di interi comparti amministrativi e l’attribuzione di un ruolo decisionale pervasivo della Protezione Civile, con una dotazione finanziaria enormemente superiore ai flussi economici ordinari. In questo quadro non sorprende che la tutela e la gestione integrata di beni comuni come l’acqua e il suolo, la sicurezza e l’assetto idrogeologico, non riescano a diventare leva e misura ordinaria della sostenibilità delle politiche territoriali ed economiche, come richiesto dagli indirizzi e dai cofinanziamenti comunitari.

Ne consegue una “diseconomia” permanente, dove le grandi opere, anche le più improbabili, provengono da decisione calate dall’alto al di fuori da razionalità di programmazione, da verifiche dei costi e benefici ambientali, sociali ed economici. Diventando, così, nei fatti, l’alternativa reale a un programma sistematico di messa in sicurezza del territorio nazionale e delle popolazioni che vi abitano. Questo progetto di manutenzione territoriale a scala nazionale costituisce davvero l’opera pubblica prioritaria di cui ha bisogno questo Paese, come ha richiamato in questi giorni il Presidente della Repubblica, di fronte a un disastro “annunciato” come questo di Messina.

  1. Il disastro di Messina ripropone con evidenza la fragilità del territorio italiano e l’impoverimento dei presidi tecnici di controllo, in assenza di una effettiva azione di contrasto all’altezza della posta in gioco.

Tragedie come il terremoto in Abruzzo scuotono a lungo poiché vengono sentiti nell’opinione pubblica e nella percezione del senso comune come tragedie eccezionali, non imputabili principalmente alle responsabilità umane. Mentre la ripetitività della rappresentazione mediatica di eventi come la frana di Messina, con evidenze sempre meno “naturali”, più frequenti e sicuramente evitabili, spariscono rapidamente dalla memoria dell’attenzione pubblica. Senza apportare cambiamenti nell’approccio culturale, nella individuazione delle priorità dell’agenda politica, negli stessi comportamenti delle persone.

Rimanendo ai tempi recenti, una tragedia di natura simile come il disastro del Sarno del ‘98 aveva provocato una reattività ancora diffusa, tradotta nella legge 276 dello stesso anno e nella formazione dei piani stralcio di bacino per l’assetto idrogeologico, con l’individuazione e la perimetrazione delle aree da sottoporre a misure di salvaguardia, accompagnate da misure straordinarie dirette a rimuovere le situazioni a rischio più alto in tutto il Paese. Ma dopo questo sforzo lodevole, anche finanziario, quali azioni sono seguite, che risposte sono state date alle scale nazionali, regionali e locali, e come vengono percepite?

Insomma, invece di alimentare quella capacità collettiva di metabolizzare i disastri, viverli come problemi vitali comuni, trasformarli in materia di iniziativa sociale e politica per una consapevole azione preventiva, si è allentata fino ai minimi termini l’assunzione di responsabilità per le sorti comuni, propria di una comunità e di una nazione civile.

  1. Alla luce di tutto quanto esposto, appare necessaria una svolta culturale e civile e un’assunzione di responsabilità diretta, in grado di contribuire alla modifica del senso comune dominante tra i cittadini, i portatori di interesse nei processi decisionali, i rappresentanti delle istituzioni, della ricerca e di ogni attività professionale ed economica. Per vivere e interagire, localmente e globalmente, con le mutazioni radicali che investono ogni aspetto della vita personale e sociale.

Oggi siamo in presenza di mutamenti delle condizioni climatiche che devono indurre tutti e ciascuno per la parte propria, ad assumere decisioni e comportamenti corrispondenti ai dilemmi posti da modelli di sviluppo non più perseguibili, che hanno visto nel territorio il supporto inerte per qualsivoglia intrapresa umana, senza consapevolezza dei guasti e dei rischi scaricati alle generazioni future.

È in passaggi come questi, connotati da rischi, da innovazioni radicali, dalla messa in discussione di paradigmi e comportamenti consolidati, che occorre rinnovare tutte le energie e le competenze disponibili. Per poi assumere le responsabilità che ne derivano nelle varie espressioni della società e delle istituzioni.

Le risorse culturali e intellettuali non mancano. Sul versante specifico delle discipline delle acque, del suolo e del territorio il nostro Paese possiede una comunità scientifica che ha svolto un ruolo centrale in diversi passaggi decisivi. Innanzitutto nella straordinaria azione analitica e progettuale della Commissione De Marchi, dopo l’alluvione di Firenze e l’inondazione di Venezia (1966/70), incidendo in termini sostanziali sulla formazione della riforma del governo delle acque e del suolo per ecosistemi di bacino e non per confini amministrativi (con la legge 183/89). E poi col ruolo svolto dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e dalle Università, con la nascita di indirizzi di studi, corsi di laurea, discipline, oltre che con la relativa produzione scientifica. Ma anche nell’attività di verifica sistematica della applicazione della riforma – messa in opera principalmente dal Comitato paritetico Camera e Senato sulla difesa del suolo (1997/99) – a fronte degli ostacoli che continuano a contrastarla, ricavandone indicazioni valide soprattutto per la fase incerta che stiamo attraversando.

I fatti di questi ultimi giorni verificatisi a Messina assumono, nella loro tragicità e nel dolore che devono assumere, un valore esemplare. Nel sesto paese industrializzato del pianeta, nel 2009, non possono, non devono verificarsi eventi di questo tipo. I firmatari di questo documento, nella loro responsabilità collettiva e individuale, si rivolgono alle SS.VV. affinché vogliano promuovere con la tempestività, l’urgenza ma anche il necessario spessore culturale e istituzionale, una stagione di interesse, di provvedimenti e di individuazione di priorità per i temi del suolo e delle acque, cosicché, in sede legislativa e nelle articolazioni culturali e professionali, il nostro Paese abbia finalmente un insieme di misure organiche di medio e lungo periodo volte a una gestione equilibrata del territorio e del suolo, a minimizzare i rischi potenziali, a introdurre snelli ed efficaci strumenti di pianificazione, a disporre di adeguate risorse umane, strumentali e finanziarie.

Diventa allora improcrastinabile la promozione di una azione coordinata, continua e di lunga durata, per dare risposta e compimento a tutte le denunce di questi anni. Questo documento intende essere insieme testimonianza e appello da parte delle Associazioni e dei sottoscrittori che lo promuovono.

8 ottobre 2009

Promosso da:
Associazione Idrotecnica Italiana (segreteria@idrotecnicaitaliana.it)
Gruppo Italiano di Idraulica
Gruppo 183
Accademia Italiana di Scienze Forestali (info@aisf.it)

sottoscrivi anche tu l’appello

Primi firmatari (elenco provvisorio):
Prof. ing. Giuseppe Frega, ordinario nell’università
Prof. Giovanni Seminara, ordinario nell’università
Prof. Giuseppe Rossi, ordinario nell’università
Prof. Maurizio Giugni, ordinario nell’università
Prof. Bruno Brunone, ordinario nell’università
Prof. Dott. Orazio Ciancio, ordinario nell’università
Prof. Ing. Massimo Veltri, ordinario nell’università
Prof. Ing. Pasquale Versace, ordinario nell’università
Prof. Michele Zazzi, ordinario nell’università
Dott. Mario Pileggi, geologo, Associazione Amici della Terra
Prof. Francesco Iovino, ordinario nell’università
Prof. ing. Ennio Ferrari, associato nell’università
Prof. Ing. Mauro Fiorentino, Rettore Università Basilicata
Prof. Ing. Francesco Calomino, ordinario nell’università
Prof. Ing. Paolo Veltri, Preside Facoltà di Ingegneria dell’Università della Calabria
Prof. Ing. Giorgio Verri, ordinario nell’università
Prof. Ing. Armando Brath, ordinario nell’università
Prof. Ing. Ugo Majone, ordinario nell’università
Prof. Ing. Giovanna Vittori, ordinario nell’università
Prof. Marco Marchetti, ordinario nell’università
Prof. Ing. Salvatore Alecci, ordinario nell’universià
Prof. Vittorio Leone, ordinario nell’università
Dott. Antonella Veltri, ricercatrice CNR
Dott. Giovanni Gullà, ricercatore CNR
Prof. Ing. Salvatore Grimaldi, ordinario nell’università
Prof. Salvatore Puglisi, ordinario nell’università
Dott. Ing. Beatrice Majone, libero professionista
Prof. Elena Kuzminsky, ordinario nell’università
Prof. Ing. Guelfo Pulci Doria, ordinario nell’Università
Prof. Ing. Carmine Fallico, associato nell’università
Prof. Paolo De Angelis, associato nell’università
Dott. Stefano Russo, geologo
Prof. Ing. Gianfranco Liberatore, ordinario nell’università
Ing. Massimo Comuzzi, ingegnere libero professionista
Dott. Carlo Tanzi, geologo
Prof. Mario Borghetti, ordinario nell’università
Prof. Ing. Paolo Blondeaux, ordinario nell’università
Dott. Maurizio Ponte, ricercatore nell’università
Prof. Alessandro Guerricchio, ordinario nell’università
Prof. Ing. Giuseppe Artese, associato nell’università
Prof. Ing. Vincenzo Colotti, associato nell’università
Prof. Ing. Patrizia Piro, ordinario nell’università
Prof. Ing. Carlo Ciaponi, ordinario nell’università
Prof. Ing. Michele Mossa, ordinario nell’università
Prof. Vincenzo Ferrara, ordinario nell’università
Dott.Luca Benciolini, ricercatore nell’università
Prof. Ing. Gaspare Viviani, ordinario nell’università
Ing. Francesco Di Paola, ricercatore nell’università
Ing. Antonio Ranucci, ricercatore nell’università
Dott. Giorgio Matteucci, ricercatore CNR
Dott. Antonio Viscomi, ricercatore CNR
Dott. Roberto del Favero, ricercatore nell’università
Ing. Antonio Rusconi, docente nell’università
Arch. Fiorella Felloni, docente nell’università
Dott. Giuseppe Onorati, dirigente Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Campania
Arch. Luca Gullì, docente nell’università
Arch. Federica Legnani, comune di Bologna
Prof. Davide Papotti, ricercatore e docente nell’università
Ing. Michele Della Rocca, ingegnere
Dott. Stefano Picchi, naturalista, EURAC Research
Prof. Ing. Guglielmo Benfratello, ordinario all’università
Dott. Marino Sorriso Valvo, CNR
Prof. Ing. Renzo Rosso, ordinario nell’università
Prof. Ing. Marco Mancini, ordinario nell’università
Prof. Ing. Michele Mossa, ordinario nell’università
Prof. Ing. Mario Santoro, ordinario nell’università
Prof. Ing. Gerardo Buonvissuto, ordinario nell’università
Prof. Ing. Giuseppe Curto, ordinario nell’università
Prof. Giuliano Menguzzato, ordinario nell’università
Prof. Ing. Tullio Tucciarelli, ordinario nell’università.
Prof. Ing. Roberto Gerundo, associato nell’università
Prof. Ing. Paolo Pileri, docente nell’università
Arch. Gianfranco Giovagnoli, Segretario Generale Autorità di Bacino Marecchia-Conca
Dott. Roberto Iovinelli, Geologo, Settore Difesa del Suolo, Regione Campania
CAIRE, Cooperativa Architetti e Ingegneri – Urbanistica
Arch. Ugo Baldini, CAIRE
Dott. Antonino Nicolaci, assegnista di ricerca nell’università.
Dott. Nicola Fontana, geologo
Studio di geologia Angyele
Studio di geologia Alesc 1980
Studio geologico Evitaliano
Dott. Salvatore Ieria, geologo
Studio geologico Cufari
Dott. Danilo Faliano, geologo
Ing. Mauro Bencivenga, Dirigente del Dipartimento Tutela Acque Interne e Marine dell’ISPRA
Giovanni Cafiero, architetto e urbanista, membro del comitato scientifico nazionale di Legambiente
Prof. Fabio Marcelli, ricercatore nell’università
Prof. Ing. Vincenzo Bixio, ordinario nell’università
Prof. Ing. Pierluigi Claps, ordinario nell’università,
Prof. Ing. Leonardo Damiani, ordinario nell’università
Prof. Ing. Claudio Mancuso, ordinario nell’università
Prof. Ing. Antonio Cenedese, ordinario nell’università
Prof. Domenico Calcaterra, ordinario nell’università
Dott. Emilia Mitidieri, geologo
Prof. Ing. Salvatore Troisi, ordinario nell’università
Prof. Ing. Isidoro Fasolino, ricercatore e docente nell’università
Ing. Maurizio Ferla, Dirigente del Servizio Laguna di Venezia dell’ISPRA
Dott. Geol. Umberto Nico, Autorità di Bacino Interregionale del fiume Tronto
Ing. Virgilio Anselmo, libero professionista
Dott. Carmela Maria Cellamare, ENEA
Dott. Chiara Cento, geologo, Provincia di La Spezia
Prof. Ing. Stefano Ferrari, Politecnico di Torino

By Mario Laporta (AFP) – 4 ottobre 2009

SCALETTA ZANCLEA, Italy — Anger grew on Saturday as the death toll rose to 21 after torrential rains in Sicily, with some 30 still missing.

“Another victim has been found at Scaletta Zanclea, bringing the number of deaths to 21”, civil defence chief Guido Bertolaso said in nearby Messina.

Meanwhile Italian Prime Minister Silvio Berlusconi, who had called off a visit to the disaster area on Saturday, would fly over in a helicopter on Sunday to see the scale of the damage, Bertalaso said.

Berlusconi had earlier decided not to go to the scene, saying he did not want to get in the way of the rescue efforts.

Some 250 millimetres (10 inches) of rain fell on northeastern Sicily in the space of a few hours on Thursday, triggering mudslides that collapsed buildings, carried off cars and cut off roads throughout the region.

Rescue workers and firemen, backed by sniffer dogs and some 200 volunteers resumed searching for survivors in the rubble of buildings Saturday, while helicopters flew in food for local inhabitants, regional civil defence spokesman Giampiero Gliubizzi said.

In Scaletta Zanclea, south of the port city of Messina on the northeastern tip of the island, mechanical diggers were clearing four or five metres (12-15 feet) of mud.

Witnesses said that in some towns such as Molino, the mud was up to seven metres deep.

Survivors were being kept away from the scene, and many seemed deprived of everything, including water supplies, although the rain still fell.

Several hundred people suffered some form of injury, and those needing hospital treatment had to be ferried aboard dinghies because the roads were impassable, while the seriously hurt were evacuated by helicopter.

Mudslides included one that stretched over 3.5 kilometres (two miles), cutting off communications and sweeping away dozens of cars between Messina and several coastal towns south of the city.

The Sicilian capital Palermo in the northwest was also affected, with motorists stranded in their cars and hospital emergency services flooded.

Some 400 people had to be evacuated and the government has declared a state of emergency in the region.

Officials, including President Giorgio Napolitano, hit out at the inadequate measures taken against natural disasters and the flouting of regulations on building in danger zones, saying the tragedy was totally predictable.

Napolitano called for investment in “a serious security plan, instead of monumental works,” in reference to the 6.1 billion euro (8.5 billion dollar) bridge across the Straits of Messina due to start building next year.

Massimo Veltri, head of the Italian hydraulic engineering society, said that “in Italy people build anywhere, without regard for European standards.”

“We must have a special plan for land protection and management, because rain, even intense, should not be causing dozens of victims in a short time,” he added, quoted by the ANSA news agency.

According to the civil and environmental protection agency, 70 percent of Italian communities are threatened by water damage, enhanced by abuses, deforestation and unplanned building.

“Once more Italians are paying a high price for negligence and abuses in the building industry which has covered large areas of the country with concrete in an uncontrolled manner, especially in the south,” an official of the opposition Democratic Party said.

The press also weighed in Saturday, with Corriere della Sera publishing a catalogue of environmental disasters caused by irresponsible actions.

“It rains in the autumn, sometimes a lot,” La Stampa observed. “If you build in a river bed, your house will very probably be swept away.”

La Repubblica recalled that the area had been hit by similar mudslides in October 2007, adding, “Two years later, nothing has been done.”

“The area is already very fragile, and we have seen total negligence, especially with the lack of drainage,” Gian Vito Graziano, president of the regional association of geologists, said earlier.

Environmentalist Giulia Maria Mozzoni Crespi said: “Everything is down to negligence and a lack of concern for the environment.”

Sicilian politicians “don’t think about the landscape because they want to help their friends who want to build,” said Mozzoni Crespi, head of the Italian Fund for the Environment.

MESSINA: ASSOCIAZIONE IDROTECNICA, GESTIRE TERRITORIO (ANSA) – CATANZARO, 3 OTT
”Un piano straordinario di salvaguardia e gestione del territorio si impone come atto irrinunciabile. Forse e’ arrivato il momento delle decisioni, prescindendo dagli interventi post-emergenziali”. Lo afferma il Presidente nazionale dell’Associazione idrotecnica italiana ed ordinario di idraulica all’Universita’ della Calabria, Massimo Veltri. ”Prima della tragedia di Messina – aggiunge – un gruppo di docenti e ricercatori ha voluto redigere una nota da sottoporre all’attenzione del ministro dell’Ambiente e dei presidenti della Camera e del Senato inerente la situazione normativa e gli interventi nel settore della difesa del suolo nel nostro Paese. La decisione prendeva l’avvio dalla constatazione dello stallo in un comparto vitale del nostro Paese. La normativa europea, purtroppo ancora non recepita dall’Italia, potrebbe dispiegarsi in iniziative rapide ed efficaci con la congrua dotazione di risorse finanziarie e strumentali”.
”Invece viviamo nel limbo del detto e non detto – prosegue Veltri – e del fatto e non fatto con in piu’ una derubricazione dei problemi inerenti l’assetto e la salvaguardia del territorio che puntualmente ci presenta il conto. Non e’ possibile che piogge per quanto intense possano provocare nel breve giro di ore decine di vittime. Se e’ vero che sono in atto cambiamenti climatici una accorta politica del territorio potrebbe evitare rischi ed evenienze”.
”In Italia – conclude Veltri – si e’ costruito ovunque. In Italia l’abbandono della collina e della montagna ha provocato dei tratti vallivi dei fiumi condizioni di assoluta instabilita”’. (ANSA)